Un’analisi del suono in 2001: Odissea nello spazio. Kubrick espande la narrazione oltre l’immagine, costruendo l’ignoto cosmico mediante i silenzi e la musica.
Nel panorama cinematografico del secondo Novecento, 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, incarna una delle esperienze estetiche più radicali e rivoluzionarie mai concepite. Al centro di questa innovazione non vi è soltanto la composizione visiva, ma una concezione del suono inedita. La componente sonora, infatti, abbandona la sua funzione di accompagnamento, per diventare parte fondante della narrazione. Ciò che ascoltiamo si trasforma così in un linguaggio totalmente autonomo.
In questo film, il suono è uno spazio sensoriale che accoglie e respinge lo spettatore, creando un immaginario astratto che restituisce la percezione dell’ignoto cosmico. In collaborazione con il sound designer Winston Ryder, Kubrick elabora un paesaggio sonoro stratificato, in cui convivono silenzi, timbri elettronici e suoni ambientali manipolati che intensificano il conflitto uomo-macchina.
Anche la colonna sonora – parte integrante del paesaggio sonoro – parla di post-umano, amplificando la tensione tra materia e trascendentale. Kubrick sceglie la fantascienza per parlare di temi che ora risuonano più attuali che mai, rifiutando una musica vicina ai canoni hollywoodiani. Il regista si serve di brani già esistenti, trasformandoli in veri e propri atti di pensiero. Dalla solennità di Also sprach Zarathustra di Richard Strauss, ai valzer di Johann Strauss, fino alla musica metafisica di György Ligeti. Si tratta di paesaggi che interrogano e destabilizzano lo spettatore, esponendolo a una dimensione sfaldata che non trova mai un dunque oggettivo.
In 2001: Odissea nello spazio, il silenzio assume una funzione tutt’altro che passiva: diventa presenza tangibile, piena e carica di senso. Nella vastità del cosmo, il silenzio non è un “nulla”, bensì voce naturale dell’universo. Mentre il cinema classico hollywoodiano tendeva a esaltare l’immagine mediante colonne sonore “importanti”, Kubrick sceglie il realismo. In tal modo, ne esalta la maestosità e insieme l’inquietudine. Questa rarefazione intensifica l’esperienza, immergendo lo spettatore nei suoni sottili delle grandi navi spaziali, fredde e impersonali. Così si delinea una realtà in cui la natura e la tecnologia hanno sovrastato lo spazio vitale dell’essere umano.
In un paesaggio sonoro dominato dalla tecnologia – ronzii, bip e suoni elettronici provenienti dalla Discovery One – il respiro degli astronauti emerge come suono centrale, amplificato dalle tute spaziali. È il suono più umano che esista, eppure qui è regolato da una macchina che lo tiene in vita e lo rende impotente. Dunque, è vita e morte in egual misura. Ciò sottolinea la fragilità e l’insignificanza dell’uomo di fronte alla magnificenza e all’ostilità della natura – temi centrali della poetica kubrickiana. Nella società moderna, l’uomo è disconnesso, intrappolato nella propria vulnerabilità e subordinato a forze più grandi.
La voce profonda e monocorde di HAL 9000, il supercomputer che gestisce la Discovery One, incarna la vera minaccia. La sua voce è apparentemente calma e rassicurante. Quasi umana nel tentativo di emulare la comunicazione emotiva tipica di un essere senziente. Tuttavia, cela un’assenza di dinamiche affettive che si manifestano con un distacco freddo e inquietante. Ed è proprio la dicotomia tra tono calmo e mancanza di emozione che accentua la tensione.
Il supercomputer diventa una presenza onnisciente ed onnipresente. E qui torna il conflitto uomo-macchina: un algoritmo che, pur essendo privo di cuore e di anima, è capace di ribellarsi al proprio creatore, manifestando una coscienza e una volontà propria. Quando HAL viene disattivato, la sua voce si colora di toni terrificanti, generati da frequenze sempre più basse e dall’utilizzo del ralenti. Dunque, HAL è a tutti gli effetti un essere consapevole.
Kubrick si serve di brani di musica classica non originali per rafforzare la linea drammaturgica e filosofica di 2001: Odissea nello spazio. La scelta ricade su Also sprach Zarathustra (1896) di Richard Strauss e An der schönen blauen Donau (1866) di Johann Strauss. È una colonna sonora iconica che amplifica i temi universali della pellicola. Tra questi, l’evoluzione dell’essere umano, la grandiosità e il mistero dell’universo, nonché l’ambiguità della tecnologia.
Also sprach Zarathustra accompagna la scena della scoperta dell’osso-arma da parte dell’ominide. Ciò simboleggia la transizione da istinto a coscienza, segnando così l’inizio dell’evoluzione umana. Poi, il celebre jump-cut trasforma l’osso in una navicella spaziale. Questo rappresenta l’ascesa tecnologica ma anche il perdurare del conflitto.
Su queste tematiche prosegue An der schönen blauen Donau, che accompagna la danza delle astronavi nello spazio. Il valzer viennese richiama tipicamente la convivialità, l’armonia e la festa. Ma in questo caso, contrasta con l’inospitalità del cosmo, suggerendo una tensione tra bellezza artificiale e ostilità naturale. Kubrick sovverte il ruolo tradizionale della musica nel cinema e lascia allo spettatore la libertà di interpretare. In questo modo, con 2001: Odissea nello spazio, il regista ha spinto la musica oltre la classicità, modificandone l’accezione nella memoria del tempo.
I tappeti sonori del compositore ungherese-austriaco György Ligeti assumono un ruolo centrale in questa prospettiva. Brani come Atmospheres evocano il mistero dell’universo, immergendo lo spettatore in un viaggio straniante e non configurabile. Il tempo è sospeso. La musica sembra muoversi come una nube che si trasforma continuamente, seguendo linee incrociate. È eterea e al contempo dissonante.
Con Requiem, Ligeti accompagna l’apparizione del monolite tra gli ominidi, suggerendo la presenza di un essere divino. Anni dopo, quando il monolite ricompare sulla luna in presenza degli astronauti, il senso di smarrimento cresce con Lux Aeterna. Infine, la scena dello Stargate segna il culmine. Bowman sprofonda in una vertigine, compiendo un viaggio che va oltre il tangibile. Un viaggio visivo e acustico che lo trasforma in un’entità altra, come se le vibrazioni di Ligeti fossero la voce di un essere superiore che lo chiama a sé.
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