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Ari Aster, genesi di un nuovo horror postmoderno
Un focus sul cinema di Ari Aster, regista dell’estetica del trauma e del dolore, autore di tragedie moderne che nascono da paure ancestrali e drammi familiari.
Nel panorama del cinema postmoderno, Ari Aster si è insinuato sussurrando dolori e traumi indicibili. Così, le sue opere non urlano paura e sofferenza, ma le raccontano sottovoce, svelandone lentamente gli aspetti più nascosti. Il suo è un cinema che sin da subito si è dimostrato portavoce delle aree più marce della mente umana e delle sue contraddizioni. Tuttavia, il regista americano non intende puntare il dito su tabù, ferite emotive e sensi di colpa. Al contrario, le trasforma in vere e proprie tragedie dell’essere umano moderno, attraverso esperienze visive memorabili.
Dal cortometraggio disturbante The Strange Thing About the Johnsons (2011) a Hereditary (2018), Midsommar (2019) e Beau Is Afraid (2023), Ari Aster ha continuato a sfidare le convenzioni. E ora Eddington, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2025, la cui trama fa presagire uno scenario distopico (dunque reale).
Ari Aster: anatomia del trauma
Ari Aster entra nel vivo del trauma, attraverso storie di lutti non elaborati, esseri umani alienati, desideri disturbanti, emozioni implose e legami tossici. Le sue sono storie che hanno il gusto di fiabe nere che offrono morali, ma senza l’intento di puntare il dito. Infatti, Aster sembra proprio voler nobilitare la fragilità degli esseri umani, l’essere sbagliati, l’essere imperfetti. O meglio, sembra voler puntare le luci della ribalta su tutte quelle zone che spesso non vengono nominate.
La particolarità del regista sta proprio nel mostrare la tranquillità e la perfezione apparenti in cui si insinua l’orrore. La sua è un’estetica impeccabile che lascia frammenti di tragedia nei silenzi opprimenti, negli spazi vasti e claustrofobici, nei movimenti di camera lenti, nei colori freddi e nelle simmetrie. Nei suoi mondi, l’orrore della Terra è nella luce diurna di un bellissimo paesaggio nordico e nel nido famigliare.
Aster gioca costantemente con l’incubo – e quindi l’irreale – e il tangibile, influenzato dall’horror classico americano con una forte nota europea. Evidenti sono i richiami al cinema di Ingmar Bergman e Carl Theodor Dreyer, Michael Haneke e Roman Polanski. Basti pensare al tema della dissoluzione della famiglia, alla formalità della messa in scena e alla psicologia del dolore.
La sua è una regia che costruisce progressivamente la tensione, che lentamente dilaga fino al punto di non ritorno. Il disagio nasce proprio dalla costante, dalla permanenza e non dall’immediato, nonché dal dolore soffocato e silenziato. Ogni dettaglio della messa in scena è parte di un’orchestra che rappresenta la vita stessa e le angosce interiori. Un’orchestra che molto spesso segue un destino già scritto di personaggi condannati sin dall’inizio.
L’esordio: The Strange Thing About the Johnsons
Un cortometraggio che è manifesto e chiave della sua visione. Una patina di normalità quasi placida è il contesto in cui si insinua il disturbante. L’abuso sessuale si nasconde in una famiglia borghese, ma ciò che sconvolge è il ribaltamento di ruoli. Tutto è paradossale e scioccante: i generi sono decostruiti e ogni cosa sovvertita. I personaggi soffrono in silenzio e un incesto si consuma lentamente e sistematicamente, in un’atmosfera da soap che assume note grottesche.
In questa storia familiare, il disagio è l’unica sensazione che rimane. E così, tra l’assurdo e l’aberrante, Ari Aster sembra volerci dire che il vero orrore si nasconde nella quotidianità e nella placida normalità.
Hereditary
Ari Aster debutta al lungometraggio e firma un’opera che ridefinisce l’horror psicologico, continuando la sua discesa nella dissoluzione familiare. In Hereditary, il sovrannaturale è solo un pretesto per indagare su cosa si celi nell’eredità e nel trauma intergenerazionale. La famiglia Graham viene colpita dalla morte della nonna, evento che sarà catalizzatore di maledizioni e sofferenze, portando ad una consapevolezza amara. A volte il male non è intorno a noi, ma è scritto nel nostro sangue e si annida nelle nostre radici.
Ogni dettaglio ci fa immergere in un incubo lucido in cui ci sentiamo parte di un meccanismo disfunzionale da cui non riusciamo a liberarci. Toni Colette è una madre quasi ripugnante per la vulnerabilità con cui affronta la perdita e il lutto, interpretando senza dubbio una delle sue performance più stupefacenti nonché disturbanti. In sintesi, lutto, emozioni represse e colpa sono il terreno fertile per una storia paranormale in cui la casa padronale è una prigione mentale senza vie di fuga. Così come i legami di sangue.
Midsommar, l’horror alla luce del sole di Ari Aster
Con Midsommar, Ari Aster ribalta l’estetica classica dell’horror: lo espone alla luce abbagliante di un piccolo villaggio svedese, tra i prati fioriti. Dani (Florence Pugh) vive un lutto familiare ed è spezzata e sola, nel bel mezzo della depressione. Parte per un viaggio insieme al fidanzato e ad alcuni amici (tutti uomini vuoti e privi di empatia) verso un remoto festival pagano che si tiene ogni novant’anni. Tuttavia, il villaggio apparentemente idilliaco si trasforma presto in un Eden malevolo e ingannevole.
Ma paradossalmente, è proprio nel rituale della violenza e del dolore della comunità svedese che Dani troverà una sorta di pace e riconciliazione con il mondo che l’ha rifiutata. Aster veste l’horror di un’estetica nuova. Il folklore, la bellezza floreale e chiara, la simmetria e la natura viva diventano lo scenario di una fiaba nera. E l’inquietudine nasce proprio da questo contrasto tra la luce e la violenza.
Come una principessa (o eroina) contemporanea, Dani ritrova amore e considerazione proprio nella comunità di Hårga. Questa, come una “madre”, condivide il dolore della ragazza, la accoglie e piange con lei. Seppur chiedendo un sacrificio estremo in cambio. Ma di fronte al vuoto emotivo da cui è circondata, il senso di appartenenza e l’amore non hanno prezzo.
Beau Is Afraid
Beau Is Afraid è indubbiamente il film più divisivo, controverso e personale di Ari Aster. Inizialmente tutto è nella norma, fin quando ogni cosa si trasforma in un’epopea delirante, in cui la realtà inizia a sgretolarsi, a mischiarsi con l’onirico e addirittura con l’animazione. Beau (Joaquin Phoenix) è un uomo afflitto da un’ansia totalizzante, che dopo aver appreso della morte della madre, parte per un viaggio verso la casa di famiglia per affrontare il lutto. Da qui inizia un’allucinazione delirante in cui Beau scende sempre più negli inferi di un passato tormentato, fatto di angoscia e colpa.
La forma dei linguaggi si destruttura, il tempo si dilata e nuovamente di contorce, e così lo spazio, per dare voce a un viaggio tutto interiore nelle paturnie esistenziali di un uomo e nella relazione morbosa con la figura materna. Così, ancora una volta, la figura di madre è conforto quanto controllo estremo.
Aster dipinge l’affresco di un uomo contemporaneo qualsiasi, insicuro, solo e impaurito. Un uomo eternamente oppresso, incapace di lasciare il nido materno, eppure profondamente bisognoso di esso.
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