Negli ultimi anni il documentario musicale ha smesso di raccontare solo una carriera. È diventato uno strumento centrale nella costruzione della memoria culturale di figure iconiche, ma sempre in cambiamento.
I documentari musicali contemporanei, soprattutto quelli degli ultimi anni, hanno ormai superato il modello della ricostruzione cronologica. Al posto della linea temporale classica, privilegiano frammenti emotivi, materiali d’archivio rielaborati e voci indirette come collaboratori, familiari, immagini lasciate senza commento esplicativo.
Un esempio lo vediamo nel documentario Ennio del 2021 diretto da Giuseppe Tornatore. Questo evita il racconto puramente biografico per costruire il ritratto di Ennio Morricone attraverso interviste, sessioni di lavoro, materiali d’archivio e lunghi passaggi musicali. Il film non segue rigidamente l’ordine degli eventi, ma seleziona momenti e collaborazioni emblematiche, lasciando in secondo piano altre fasi della carriera. Rinunciando a una voce onnisciente, Ennio adotta uno sguardo selettivo, in cui ciò che resta fuori dal racconto pesa quanto ciò che viene mostrato. In questo senso, il documentario non si limita a registrare la storia di un grande compositore, ma la interpreta, offrendo una chiave di lettura culturale ed emotiva del suo lascito artistico.
Questi film insomma riscrivono il modo in cui ricordiamo un artista e, spesso, un’epoca. Chi meglio di Ennio Morricone.
Il vero snodo narrativo di questi film diventa spesso il montaggio, per cui il documentario musicale può diventare un vero e proprio atto editoriale. Questo è molto evidente quando a essere omaggiati sono figure iconiche della politica o della letteratura novecentesca. La selezione delle immagini d’archivio, il peso dato a determinate interviste e il silenzio su altri passaggi determinano il senso complessivo del racconto. È una strategia evidente in molti lavori recenti, dove l’attenzione si sposta dal successo pubblico alla dimensione più fragile e privata dell’artista.
Un artista che non può essere dimenticata per questo è sicuramente Amy Whinhouse. Nel suo documentario Amy del 2015, dietro alla sua fama e alla sua ascesa nell’olimpo della musica, viene raccontata molto bene la sua fragilità dovuta proprio al suo successo. Un mito divenuto tale proprio perché incapace di gestirsi e, a soli 27 anni, trovare la morte. Un progetto quello sulla cantante britannica, talmente ben riuscito che ha ricevuto anche l’Oscar come miglior documentario.
In questo modo, un’icona già mitizzata viene restituita come individuo, riletta alla luce di sensibilità contemporanee, dalla salute mentale alla pressione mediatica, che influenzano profondamente il modo in cui oggi costruiamo e condividiamo la memoria culturale.
A questo punto il mito può essere rinegoziato (lasciato al pubblico) oppure scolpito: Amy Whinehouse diventa il simbolo di un sistema tossico che divora il talento. Altri esempi possono essere quelli di Kurt Cobain o Jimy Hendrix. Il film insomma non è e non vuole essere neutrale: suggerisce una chiave morale, orienta l’empatia dello spettatore.
Nel caso di Ennio Morricone invece il film è un vero e proprio archivio di magnificenza, definitivo. Le collaborazioni che hanno segnato la storia del cinema, con registi come Sergio Leone o attori come Robert De Niro e Clint Eastwood. La sintesi di un’eredità.
Questi documentari si rivolgono a un pubblico che ha già familiarità con l’artista e con la sua opera. Più che rivelare informazioni inedite, ma capita anche questo, diventano luoghi di sedimentazione del ricordo, in cui lo spettatore è guidato a riorganizzare ciò che già sa. Il film agisce così come uno spazio di condivisione collettiva della memoria, capace di stabilizzare il racconto di un passato spesso frammentato.
Attraverso le sue scelte narrative, il documentario musicale contribuisce a individuare quel periodo storico, attenuandone le zone d’ombra e proponendo una lettura che finisce per imporsi come riferimento. Un meccanismo particolarmente incisivo nell’era dello streaming, dove la diffusione rapida e globale di un titolo può trasformarlo, in breve tempo, nella narrazione dominante di una figura iconica.
Le piattaforma streaming oggi hanno accelerato questo percorso, togliendo inevitabilmente qualità alla piazza cinematografica stessa. E questo influisce anche sui documentari musicali, divenuti prodotti seriali. L’artista perciò non viene ricordato per la sua musica, quanto per il suo stile di vita eccessivo o underground.
Infine i personaggi musicali, da quelli citati a molte altre icone artistiche, danno vita a film che modellano la memoria culturale contemporanea. Si dimostra che il mito non è qualcosa di immutabile, ma una narrazione liquida e in continua riscrittura. Così come la nostra società.
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