803Views

Il monologo come atto sovversivo femminile
In un mondo in cui le donne lottano per trovare il loro spazio, inaspettatamente il monologo si erge come luogo di espressione e di empowerment femminile.
Quanto è difficile trovare la propria voce? E una volta trovata, quanto è difficile trovare lo spazio, il tempo e il modo di usarla? È un problema vecchio quanto il mondo; ed è un problema che viene affrontato dall’inizio del mondo.
Nel dramma shakespeariano Tito Andronico, c’è un personaggio che si erge come emblema della donna oppressa e silenziata: Lavinia.
È la metafora – estremizzata – della condizione femminile in una società patriarcale: costretta a piegarsi e a rimanere in silenzio.
Nel dramma cercano di farlo nel modo più violento possibile: le mutilano la lingua. Un atto simbolico che la riduce al ruolo di oggetto, negandole ogni forma di autonomia. Privata della lingua, è privata non solo della possibilità di comunicare, ma anche della sua identità e dignità.
Eppure, questo non la farà arrendere; la sua silenziosa resistenza è un grido muto che echeggia attraverso i secoli, ricordandoci l’importanza della voce di ogni individuo, e in particolare delle donne, nella costruzione di una società più equa e giusta.
Il monologo come spazio di espressione
Il personaggio di Lavinia, per quanto estremizzato quasi in una sorta di vessazione gratuita, è la rappresentazione di una donna come tante altre. In una società che predilige narrazioni maschili, trovare la propria voce – e il proprio spazio – è una sfida tipicamente femminile.
È in questo ambiente dai contorni confusi che, in maniera del tutto inaspettata, il monologo trova il suo spazio.
Se il monologo può essere considerato letteralmente come la massima espressione del diritto alla parola, allora, quando i monologhi sono recitati da donne, il loro significato assume intrinsecamente un valore aggiuntivo. È un grido che risuona come un: “anche noi siamo qui, anche noi dobbiamo essere ascoltate”.
La settima arte è costellata di monologhi maschili che risultano intensi, vibranti, profondi. Eppure, quando sono le donne a reclamare – con forza – il loro spazio, il pugno allo stomaco che colpisce lo spettatore – intrinseco anche di tutti i costrutti sociali – è ancora più potente.
America Ferrera in Barbie
Forse uno dei monologhi più recenti, che si fa strada in questo spettro, è quello di America Ferrera in Barbie.
Barbie è stato il film rivelazione dello scorso anno e Greta Gerwig, la regista, ha preso un personaggio – Barbie – che tutti conosciamo e l’ha spogliato dei preconcetti che da sempre gli sono stati cuciti addosso, donandole una nuova veste: quella di una donna che scopre chi è, che può essere molto di più di quello che gli altri le dicono che debba essere.
Il monologo di America Ferrera, che nel film interpreta Gloria, è un discorso che parla a tutte le donne, che parla di tutte le donne. Esprime l’eterna contraddizione in cui la società patriarcale pone le donne: essere qualcosa e, al tempo stesso, non esserlo troppo. Rientrare in determinati limiti prestabiliti, senza mai oltrepassare determinate linee immaginarie.
Dà voce alle insicurezze e alle frustrazioni di milioni di donne, risultando infine come un appassionato appello all’autoaccettazione e all’emancipazione femminile, dimostrando come la parola possa essere una potente arma di liberazione (e autodeterminazione).
Julia Roberts, il monologo in The Normal Heart
Il film per la televisione The Normal Heart, diretto da Ryan Murphy, affronta un tema difficilissimo: quello dell’AIDS negli anni ’80, una malattia sconosciuta e colma di preconcetti.
Il monologo di Julia Roberts è un fulcro emotivo del film, soprattutto quando, di fronte all’indifferenza e alla stigmatizzazione che circondano l’epidemia di AIDS, decide di alzare la voce. Con rabbia e dolore, Sally (Roberts) denuncia l’omofobia e l’ipocrisia della società, esigendo che venga riconosciuta la dignità delle persone affette da questa malattia.
Sally diventa così un’icona della lotta per l’uguaglianza e l’empowerment femminile, offrendo un invito a riflettere sulla nostra umanità e sulla responsabilità di fronte alla sofferenza degli altri.
Nicole Kidman in Stoker
Nel thriller psicologico di Park Chan-wook, Stoker, Nicole Kidman offre una performance intensa e disturbante nel ruolo di Evelyn Stoker. La sua interpretazione, lontana dai classici stereotipi materni, esplora le profondità oscure di un legame madre-figlia.
Evelyn condivide con sua figlia, India, una relazione complessa e perversa. In una delle scene più emblematiche del film, pronuncia un monologo che rivela la sua visione distorta della maternità: “Si diventa madri per provare a ricominciare da zero, per dare vita a una creatura che possa raggiungere ciò che noi non abbiamo potuto. Ma io non sono così. Io non vedo l’ora di vederti soffrire, di vedere la vita che ti fa a pezzi.”
La figura della madre si spoglia del consueto affetto materno che la contraddistingue, per assumere le sembianze di un sentimento oscuro, dettato dalla gelosia e dal desiderio di vedere la figlia soffrire. Una rappresentazione cruda, crudele e completamente in contrasto con l’immagine tradizionale delle donne.
Taraji P. Henson in Il diritto di contare
Il diritto di contare, film del 2016, narra la straordinaria storia di tre donne afroamericane che, sfidando una mentalità segregazionista e sessista, sono diventate fondamentali per la vittoria americana nella corsa alla conquista dello spazio.
Un momento particolarmente toccante è la famosa scena del bagno, in cui il personaggio interpretato da Taraji P. Henson, costretta a percorrere lunghe distanze per raggiungere una toilette non riservata ai bianchi, viene umiliata dal suo superiore.
Il monologo che ne segue è un grido di dolore e di rabbia, che denuncia l’ingiustizia e la discriminazione subite dalle donne di colore in un’epoca di grandi cambiamenti. È l’emblema massimo del pugno allo stomaco vedere come, con grinta, la protagonista si appropria di uno dei diritti che le viene costantemente negato: il diritto alla parola. Che mai come in questo film coincide anche con il diritto all’esistenza.
E ancora, chi potrebbe dimenticare il monologo straziante di Cate Blanchett in Diario di uno scandalo, o la profondità di quello di Judi Dench nello stesso film? E che dire della forza di Vanessa Williams in I sapori della vita o della delicata intensità di Saoirse Ronan in Piccole donne?
Questi monologhi, e tanti altri, sono più che semplici scene di un film: sono grida di liberazione, atti di ribellione contro i limiti imposti alle donne. Sono la prova che, attraverso la parola, le donne possono rivendicare il proprio spazio e la propria voce, sfidando ogni stereotipo.
1 Comments
Comments are closed.