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I volti nel cinema di Ingmar Bergman

Il volto nel cinema di Bergman: l’arte del primo piano

Attraverso la macchina da presa che diventa strumento spietato e intimo, nei film di Bergman il volto si identifica come luogo dove il dolore prende forma.

Per Bergman, il cinema non è mai stato una semplice forma di intrattenimento, è piuttosto una seduta psicoanalitica, una preghiera interrotta. Il regista svedese, cerca il punto esatto dove le emozioni si frantumano, in cui finalmente la maschera scivola, in cui la verità, a volte scomoda e cruda, affiora.

Persone

In Persona, film che più di ogni altro riflette questa idea, la macchina da presa non si divide mai dai volti di Liv Ullmann e Bibi Andersson con un’ostinazione quasi crudele e diabolica. Non c’è spazio per gesti, narrazione e sfondi. Ci sono solo due volti che riflettono, si confrontano e a volte, si confondono. Il volto qui diventa quasi un enigma, come se fosse lo specchio dell’inconscio dei personaggi.

Anche in Scene da un matrimonio, la macchina da presa si ferma sulle crepe emotive, sui sorrisi forzati, sulle lacrime trattenute a stento. Ogni primo piano è una dichiarazione di resa. Non ci sono effetti speciali, solo l’effetto più devastate di tutti: la crudele realtà. Bergman riesce a fare del volto il teatro delle nostre percezioni più intime, dove passano amore, odio, fede e paura.

La macchina da presa

Il suo cinema è un interrogativo che non cerca risposta, ma che insiste nel porre la domanda. Non ci sorprende che il regista considerasse la macchina da presa come un personaggio delle sue storie, capace di cogliere quello che spesso l’essere umano ignora. Bergman sosteneva che solo attraverso il volto umano si può restituire la verità che il linguaggio spesso tradisce. Il volto diventa così il centro del suo mondo, dove possiamo scavare nei nostri abissi e nelle nostre sofferenze.

Non c’è cinismo, c’è solo la volontà di comprendere e far comprendere allo spettatore, osservando in silenzio. In un’epoca dove tutto scorre in modo veloce, Bergman ci invita a fermarci, a riflettere e sopratutto a guardarci dentro. A stare dentro ad un’immagine senza sentire il bisogno di doverla per forza dominare. Perché forse il cinema, come la vita, ha senso quando smette di recitare e comincia a tremare.