Cinque Palme d’Oro che raccontano la fragilità umana: tra lutto, amore, marginalità e solitudine. Un percorso intimo e comune nella meraviglia della vita.
In fondo, siamo tutti degli esseri fragili. E cinque Palme d’Oro ce lo hanno raccontato attraverso un filo comune dalle mille sfaccettature: la meraviglia che si nasconde nella vulnerabilità. Nel corso del tempo, il Festival di Cannes ha portato sul grande schermo storie da tutto il mondo, che sono diventate in un modo o nell’altro le storie di tutti noi. Molti registi, raccontando i loro personaggi, hanno saputo esplorare quella dimensione profonda che ci rende umani.
In occasione del Festival di Cannes 2025, noi di Almanacco Cinema vogliamo ripercorrere quelle storie delicate ma al tempo stesso struggenti. Storie che ci hanno insegnato che nonostante il tempo passi, quella fragilità continua a esistere, seppur in forme diverse.
Dal tentativo di trovare un senso alla vita e alla sua fine in Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami, alla sofferenza senza voce di La stanza del figlio di Nanni Moretti. E poi la consapevolezza della fine e il voler rimanervi ancorato in L’eternità e un giorno di Theo Angelopoulos e l’amore incondizionato di Amour di Michael Haneke. Infine, la meraviglia di un legame oltre il sangue in Un affare di famiglia di Hirokazu Kore-eda.
Abbas Kiarostami dipinge uno dei temi più complessi e intimi: quello del suicidio. Mr. Badii è un uomo di mezza età che vaga tra le colline desolate e silenziose di Teheran, in cerca di qualcuno che accetti di seppellirlo dopo la sua morte.
Sembra un paradosso. Perché un uomo che ha completamente perso il senso della vita dovrebbe preoccuparsi di ricevere una degna sepoltura? Ed è proprio qui che si rivela tutta la fragilità umana, in un uomo che, seppur perso in una profonda solitudine esistenziale, sembra ancora aggrapparsi a un’ultima speranza, a uno spiraglio di ascolto da quel mondo che l’ha abbandonato. È come se, nonostante la sua scelta, Mr. Badii cercasse comunque un modo per dare valore a quella vita, con un ultimo atto di cura.
Nella sua ricerca, l’uomo incontra tre uomini: un giovane soldato che, alla richiesta di Mr. Badii fugge spaventato; un seminarista che si appella alla religione e al moralismo; infine un anziano che condivide con Mr. Badii un’esperienza analoga. Anni prima, anche l’anziano voleva porre fine alla propria vita, ma è stata la bellezza delle piccole cose a dissuaderlo: il sapore dolce di una ciliegia.
Kiarostami non ci dà risposte, ma ci mostra quanto la vita, nella sua disarmante semplicità, possa essere preziosa. Ed è proprio in una possibilità e in un gesto umano che risiede la meraviglia del film.
Il cineasta del silenzio, Theo Angelopoulos, firma un capolavoro che narra l’ultimo tempo dell’esistenza di un poeta malato terminale, Alexandros. L’uomo deve lasciare la sua casa dell’infanzia a Salonicco per affrontare il ricovero in ospedale. In attesa della fine, Alexandros ripercorre i momenti più importanti della sua vita. Arrivato al giro di boa, ripensa a tutte le cose che avrebbe potuto fare, a cosa avrebbe potuto dire, a cosa avrebbe potuto vivere.
Così com’è stato anche per Isak Borg, protagonista di Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, è nel momento in cui Alexandros sa che non ci sarà un “domani” che si mostra più vulnerabile che mai. E proprio come suggerisce il titolo, un giorno dura un’eternità, in un giorno è contenuta una vita intera, fatta di un amore perduto, del tempo mancato con la figlia e di tutto ciò che non ha vissuto. E quel giorno, gli regala l’ultima occasione di essere un umano vivo e premuroso, attraverso l’incontro speciale con un bambino albanese emigrato.
La fragilità è insita nella poetica malinconica del regista greco: i cieli silenziosi, i vuoti di nebbia e la solitudine dei personaggi, che è esteriore quanto interiore. È in un ricordo felice che forse non è mai stato e in tutte le vite che avremmo potuto vivere. È in un uomo che sa che sta per morire, ma che continua a rimandare. Un uomo che non è pronto alla fine, e allora continua a vivere.
Nanni Moretti entra in una dimensione ben lontana dalla sua solita cifra cinica, esplorando forse una delle possibilità più atroci che un essere umano possa incontrare: la perdita di un figlio.
Giovanni è uno psicanalista che vive una vita normale e serena con la moglie e i due figli, Irene e Andrea. Ma un tragico incidente strappa la vita a quest’ultimo, cambiando per sempre il destino della famiglia. La quale, da lì in poi, dovrà tentare di scriverne uno completamente nuovo.
Il regista italiano narra il vuoto profondo che resta dopo la perdita, in una casa in cui anche l’oggetto più leggero e il ricordo più effimero diventano insostenibili. Il dolore si insinua nella quotidianità, in ogni rituale interrotto e in ogni cosa che resta.
Un protagonista che per professione guida gli altri alla cura del dolore, si ritrova totalmente spezzato, incapace di aiutare se stesso. La fragilità emerge in tutti quei dettagli rimasti immutati, immobili e sospesi. Quei dettagli che non avranno più un secondo tempo, che non esisteranno più nel futuro, ma che rimarranno per sempre incastrati in quel tempo che ormai non c’è più.
E poi, forse, la parte più difficile: riscrivere un futuro diverso, non più per quattro, ma per tre. Accettare che la vita non finisce anche quando vorremmo. Accettare di avere la forza e la possibilità di scrivere un nuovo inizio, anche se non è come ce lo eravamo immaginati.
Michael Haneke ci regala una storia d’amore struggente colpita dalla malattia, interpretata straordinariamente da Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva.
Georges e Anne vivono nel loro appartamento a Parigi fatto di ricordi ed esperienze di vita condivisa. Sono colti e ancora affiatati, nonostante l’età, e il loro amore è puro e incondizionato. Ma un giorno Anne viene colpita da un ictus. La malattia avanzerà inesorabilmente e Georges sceglie di prendersene cura da solo.
A mano a mano, Anne perde tutto: la parola, il movimento, l’autonomia e la dignità. Una donna viva, colta e appassionata che lentamente si spegne con il suo sguardo vuoto che racconta un mondo. Georges allontana e rifiuta tutti, persino la figlia, come se volesse proteggere quell’amore fino alla fine.
E così, la casa che rappresentava un nido d’amore, di storie, di memorie, insomma, un rifugio felice, diventa uno spazio sospeso disseminato di perdita d’identità e dolore. Come se ogni ricordo si dissolvesse lentamente, proprio come Anne.
In Amour, la fragilità umana non risiede solo nel corpo che lentamente si consuma e si spegne, ma soprattutto in Georges: un uomo apparentemente forte e brusco, in realtà spaventato, stanco e smarrito. Non dimostra l’amore con gesti plateali, ma attraverso la persistenza della presenza e dell’amore, anche di fronte alla consapevolezza che non c’è più niente da salvare. La fragilità è nella promessa d’amore silenziosa che resiste, anche davanti all’impossibile.
Hirokazu Kore-eda, maestro del cinema contemporaneo giapponese, crea affreschi di intimità silenziosa famigliare, attraverso un’attenta e semplice sensibilità visiva tutta orientale. Infanzia, famiglia e memoria sono i suoi temi prediletti, sempre affrontati con delicatezza.
In questo film, una famiglia ai margini vive rubando e condividendo ciò che trova. Ma non si tratta di una famiglia qualsiasi, infatti, non ci sono legami di sangue, ma solo d’amore. Ognuno è arrivato in quel nido affettivo per caso, rimanendovi per scelta. Così Kore-eda ci mostra che ciò che tiene insieme un legame non è la parentela, ma la volontà di esserci l’uno per l’altro, anche nei momenti più bui.
La fragilità risiede nei gesti più piccoli e si manifesta dove meno ce l’aspettiamo: in una casa dove manca tutto, fuorché la ricchezza d’animo. In una famiglia che sceglie di diventare tale, composta dagli “ultimi” della società, che però ritrovano un senso di appartenenza e amore scegliendosi ogni giorno. E la tenerezza è proprio lì, in quel bisogno di sentirsi visti, riconosciuti e amati, anche dove nulla è considerato “normale”.
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