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Ryan Murphy e i fratelli Menendez, quando il voyeurismo diventa problematico
Uno degli aspetti più interessanti della nuova serie di Ryan Murphy, Monsters: The Lyle and Erik Menendez Story, ultimo uscito di casa Netflix, è tutta l’ondata di polemiche che ha portato con sé. Viene quindi da chiedersi quanto la volontà di creare polemica attorno ai propri lavori sia parte integrante dell’opera stessa e, infine, se di queste controversie siamo attivi protagonisti o pesci abboccati all’amo.
Chiunque ha seguito la carriera di Ryan Murphy, a partire dalle primissime stagioni di American Horror Story, passando per Screem Queen, fino a Feud, non può che costatare l’enorme talento di questo autore che, nel corso di poco più di un decennio, ha saputo incidere a fuoco il proprio nome nell’Olimpo della serialità televisiva. Tutte le opere di Murphy sono estremamente contemporanee, audaci, volutamente (e/o forzatamente) iconiche e, infine, riconoscibili. Essere riconosciuti è in assoluto un punto di arrivo nella carriera di qualunque autore perché permette di segnare una cifra stilistica che appartiene a uno e nessun altro: chiunque viene dopo non può che essere una copia sbiadita e blanda. Solitamente siamo abituati a vedere questo tipo di autorialità grazie a un certo tipo di scrittura (Charlie Kaufman), un certo tipo di estetica (Wes Anderson), un certo tipo di assurdo (Yorgos Lanthimos), un certo tipo di utilizzo della camera da presa (Lars Von Trier) e così via.
Cosa rende però Ryan Murphy così riconoscibile? Di certo non si differenzia per la scrittura delle sue storie, che seguono una struttura ripetitiva e riproposta in varie declinazioni pressocché all’infinito; eppure Murphy, di tutte le sue opere, ne è l’autore, ma solo qualche volta il regista. Nel mondo della serialità televisiva, le regole del cinema sono più o meno ribaltate: la figura dello showrunner è, in assoluto, la figura di riferimento che fa capo alla riuscita del prodotto finale; cosa che nel mondo del cinema spetta al regista che, come un direttore d’orchestra, si dibatte tra le pressioni dei produttori e il suo autentico senso di arte. Dopo anni di gavetta, Murphy sembra aver trovato il mazzo di chiavi giusto per bypassare completamente la logica delle case di produzione, facendo del suo senso autoriale il dogma su cui piegare le volontà dei produttori e, infine, del pubblico stesso.
Ryan Murphy e il problema del maschile
Murphy ha all’attivo diversi contratti con Netflix e Disney; sembrano, quindi, lontani gli anni in cui doveva elemosinare per una nuova stagione di American Horror Story, che a oggi rimane la sua migliore serie di sempre: entrata di diritto nei libri di storia, che ha segnato l’abc di un certo tipo di serialità televisiva. Ma questa è un’altra storia che meriterebbe un racconto a parte. Il mazzo di chiavi perfetto è costituito dalla capacità di selezionare argomenti buzz, ovvero sentiment che in quel preciso momento segnano profondamente la cultura contemporanea; un’estetica glamour che, anche nei suoi momenti di decadenza, risulta sempre ben vestita; infine, un circuito di attori feticci che Murphy interscambia nei suoi prodotti come fossero figurine. Tuttavia c’è qualcos’altro che si è infiltrato lentamente nelle narrazioni dell’autore americano, ovvero un certo voyeurismo che permea le figure maschili. Gli uomini, nelle storie di Murphy, sono sempre bellissimi, scultorei e ipersessualizzati. Non sarebbe un problema, fino a quando non viene da chiedersi se a essere rappresentati in questo modo fossero le donne e se proprio questa feticizzazione dei corpi femminili ne diventasse una cifra stilistica.
Nell’ultimo lavoro Monsters: The Lyle and Erik Menendez Story risalta facilmente agli occhi la corporeità dei suoi protagonisti, gli attori Cooper Koch e Nicholas Alexander Chavez, spesso gratuita e volgare. A un certo punto della serie l’effetto wow lascia il posto all’effetto cringe: soprattutto quando non è più neanche il corpo palestratissimo dei suoi personaggi a essere sessualizzato o sessualizzabile, quanto l’occhio della macchina da presa che diventa maniacale, invadente e viscido. Chi è che sta guardando questi corpi? Perché lo sta facendo in questo modo? Qual è il punto? Il fatto più inquietante è che nessuna di queste domande ha delle risposte ed è proprio nella gratuità dei corpi nudi che Murphy fa un ultimo terribile passo falso. Ed è un vero peccato perché potenzialmente l’ultima serie di Netflix è anche la prima, dopo tanto tempo, nel calderone brodoso che Murphy continua a rigirare in questi anni, a rendere giustizia al genio che abbiamo conosciuto.
Ryan Murphy, sotto la lente d’ingrandimento
La puntata numero sei di Monsters: The Lyle and Erik Menendez Story può entrare di default all’interno delle puntate più iconiche nella storia della serialità televisiva: un unico, lunghissimo, esauriente, corrosivo piano sequenza che segue lo struggente racconto di Lyle Menendez sugli abusi sessuali subiti. Non ci sarebbe stato altro modo al mondo per raccontare e trasmettere il senso di inadeguatezza e dignità a questo tipo di momento nella storia. Quindi, infine, ci si chiede perché Murphy si debba ritrovare a utilizzare stratagemmi spiccioli come quello del voyeurismo ipersessualizzato maschile o l’utilizzo di attori iconici (da Lady Gaga a Kim Kardashian) per riuscire ad accendere un riflettore sul suo talento, che è palese e già pienamente santificato.
Monsters: The Lyle and Erik Menendez Story è un’opportunità persa in nome del pop che Murphy tanto c’ha fatto amare (dall’utilizzo delle sue colonne sonore alla scrittura di citazioni iconiche come “Balenciaga”). Quindi, Ryan, perché poi riduci sempre tutto al semplice sesso? Va bene che il sesso vende, i corpi vendono, le cose belle vendono ma allora bisogna pagarne il prezzo della contraddizione in termini di inclusione e di rappresentazione della diversità. Non basta creare nuovi modelli di riferimento mentre, allo stesso tempo, si rabboniscono sempre gli stessi, votati solo, esclusivamente al Dio della perfezione, chiunque lui sia.