Il 2000 ha portato con sé la distribuzione di questa chicca camp passata totalmente sotto i radar, The Cell: un film brutto da recuperare assolutamente.
Che cos’è il camp? Quando il trash diventa camp? E perché nessuno parla dei film in cui Jennifer Lopez è protagonista? Sono camp o trash? Questo e altri ventimila motivi per recuperare The Cell, film uscito all’alba del nuovo millennio e diretto da Tarsem Singh, scritto da Mark Prostosevich.
C’era una volta il 2019 e il web era impazzito per il Met Gala, evento mondano di beneficienza organizzato nel Metropolitan Museum of Art di New York dalla direttrice di Vogue America: Anna Wintour, un nome, un’icona. Il Met Gala è organizzato ogni anno dal 1948, ma il 2019 sembra essere la data di scoperta della moda da parte del popolo del web.
Lo stravagante e teatrale abbigliamento degli ospiti di Wntour ha portato con sé un sacco di buzz attorno all’evento, ne va da sé la scoperta dell’intricato mondo camp. Susan Sontag scrive che il camp è l’amore per l’innaturale, per l’artificio, tuttavia negli ultimi anni il camp si è dimostrato un potentissimo strumento per veicolare messaggi politici e sociali, specialmente per i gruppi marginalizzati.
Tutto ciò che è artefatto, esagerato, umoristico, bizzarro e che trova la sua radice nel reale è camp: Donald Trump che diventa presidente degli Stati Uniti è camp, come lo è Myrtle Snow (Frances Conroy) che, nell’episodio cinque della serie American Horror Story: Coven, prima di bruciare sul rogo, urla come ultima parola “Balenciaga”, oltre che iconica, è anche estremamente camp.
Nel mondo del cinema il concetto di camp è andato a evolversi di pari passo con quello di cultura di massa, tant’è che, sebbene se ne inizi a parlare già a partire dagli anni sessanta, il camp esplode e trova terreno fertile con il cinema post moderno degli anni ottanta.
The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975) ci offre un ottimo esempio per parlare del fenomeno camp in riferimento alla sospensione del giudizio morale e un riequilibrio dello stesso su norme fuori dall’ordinario.
Sembra, inoltre, impossibile separare l’evoluzione del camp dalla cultura queer: Jack Babuscio arriva a sostenere che il camp nasce dall’alienazione del mondo queer rispetto al mainstream; quindi, tale alienazione, produce ironia, estetismo e teatralità.
The Cell è un film che ha davvero poco da raccontare ma che, tuttavia, ci permette di avere tantissimi spunti di riflessione. Ambientato in un futuro non meglio specificato, l’assistente sociale Catherine (Jennifer Lopez) lavora all’interno di un laboratorio dove si sperimenta una tecnica per entrare nei sogni delle persone, scoprirne i traumi e guarirle.
Catherine ci tiene a specificare che la comunicazione verbale e cosciente posa un velo d’ombra su un bambino che sta piangendo. Non staremo qui a raccontare la perfetta analisi del film perché il brutalismo non è il punto, ma a interessarci è il fatto che Catherine, a un certo punto della storia, viene incaricata da un agente dell’FBI di entrare nella mente di un serial killer in modo da scoprire dove nasconde un’altra delle sue vittime. Catherine, che è una donna temeraria ma anche poco modesta, decide di buttarsi a capofitto nella missione e in nome del bene, incontrerà il male.
Il mondo dei sogni, dell’inconscio, della mente è un terreno di gioco facilissimo per il camp, perché tutto è concesso, vale tutto. Quindi a catturare completamente l’attenzione è un’estetica bellissima, iconica che fa da contraltare al mondo del reale. Jennifer Lopez appare ora vestita da angelo, ora vestita da geisha in un giardino di fiori di ciliegio, ora da Madonna (e non la cantante).
E mentre cavalli vengono fatti a pezzetti con tanto di organi palpitanti, l’organza viola scorre come un ruscello sui muri della cattedrale dove regna la parte più brutale del serial killer e Jennifer Lopez di bianco vestita sorvola distese infinite di deserto, viene da chiedersi “ma non è tutto fine a se stesso?”. Inutile girarci intorno The Cell è un brutto film, senza una vera e propria storia e talmente didascalico da farci trovare le subordinate di Dora, l’esploratrice più intricate (e ce ne voleva con un concept del genere). Eppure niente è mai facile come appare, vediamo perché.
Per capire meglio The Cell, e anche perché ne stiamo parlando, occorre defocalizzare il punto: zoomare all’indietro, non ingrandire, ma distanziarsi fino a quando non capiamo di essere all’alba di un nuovo millennio, un evento che accade una volta ogni mille anni. Questo film fa da cassa di risonanza a tutte le paure storiche del vecchio secolo, dalla tecnologia alla psicologia, dall’erotismo mal celato al profano estetizzato.
Il cinema dei primi anni duemila era un cinema di assestamento, come qualsiasi cosa in quegli anni; un cinema che prendeva ciò che voleva dal passato e lo riconfigurava nel futuro: un futuro immaginato nel passato, oltre che essere un concetto interessante, è anche estremamente imbarazzante visto a posteriori.
Se non che autori come Tarsem Singh, cosciente o meno poco importa, spinge l’acceleratore su un’estetica estremizzata in cui le iconografie antiche (o sacre addirittura) si riconfigurano con i concetti del presente. Jennifer Lopez è la Madonna, sembra la Madonna, battezza un bambino in un lago vestita da Madonna, ma la sua aureola è fatta di glitter, il suo paesaggio è completamente rosa e, come la Venere di Milo, sembra uscire da una conchiglia.
La pellicola è un gioiellino per gli appassionati del camp, una chicca poco nota ma che fa bene guardare per tirarsi su e immaginarsi in un altro mondo in cui le cose giuste si possono combattere a suon di katana e catch phrases: mentre JLo uccide il mostro che popola la mente del serial killer urla “questo è il mio cazzo di mondo” e lei non sa quanto avremmo voluto viverlo anche noi.
Il film di Singh mescola insieme Matrix (Lana e Lilly Wachowski, 1999), Fight Club (David Fincher, 1999), Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1999) e tanti altri, ma è l’ultimo film che racconta un mondo prima che la storia s’interrompesse di nuovo, prima dell’undici settembre duemilauno, prima che il futuro facesse paura ma non abbastanza da non riuscire immaginarlo.
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