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Le interviste: Alessandro Colizzi, tra regia e insegnamento
Per la serie delle Interviste di Almanacco oggi riportiamo l’intervista che ci ha rilasciato Alessandro Colizzi: regista, scrittore e sceneggiatore romano.
Nasce a Roma nel 1962. Si laurea alla Sapienza in Storia e Critica del Cinema con una tesi sulla figura della donna nel cinema di Rainer Werner Fassbinder. Studia “regia” con Nikita Mikhalkov, “sceneggiatura” con Robert McKee, e “story editor” con Arista.
Assistente alla regia di Ettore Scola in Maccheroni. Membro della Giuria dei David di Donatello fino al 2018. Nel 1994 fonda la casa di produzione indipendente Film Daedalus.
Così scrive di sé Alessandro Colizzi sul sito della sua scuola di cinema che ha aperto a Roma qualche anno fa e dove insegna regia, la Lac. Abbiamo cercato, tramite la ricostruzione di alcuni momenti importanti della sua vita e della sua carriera, di mettere in luce come viene visto il cinema (soprattutto quello di adesso, soprattutto quello italiano) con una personalità che è sempre stata immersa in questo settore.
L’intervista ad Alessandro Colizzi
Alessandro, tu sei figlio d’arte: tuo padre è Giuseppe Colizzi, considerato l’inventore della coppia Bud Spencer e Terence Hill. Nel ’67, quando è stato girato il primo film dell’ormai iconico duo spaghetti Western, Dio perdona… io no!, avevi 5 anni. Da bambino come hai vissuto e percepito il lavoro di tuo padre?
“In quel momento non mi rendevo conto di nulla ovviamente. I miei lavoravano e io e mio fratello eravamo sballottati in giro per gli alberghi di Almeria in attesa che tornassero la sera dopo le riprese. A quell’età non sai neppure cosa sia il cinema. Certamente in famiglia vivevamo le preoccupazioni e poi l’euforia per il successo del primo e poi del secondo film, I quattro dell’Ave Maria.
È stato anni dopo che ho capito il senso di quello che mio padre stava facendo. Ricordo chiaramente qualche visita sul set de La collina degli stivali, nulla di Più forte ragazzi (anche perchè era girato in Colombia) e nulla neppure di Arrivano Joe e Margherito. Ho solo un ricordo del giorno in cui mio padre mi presentò Keith Carradine (protagonista di quest’ultimo film), ma erano già in post-produzione. Solo molti anni più tardi ho preso coscienza di cosa era stata l’invenzione di quella coppia.
E solo allora ho capito quanto la sua genialità avesse contribuito a forgiare una delle coppie più longeve e internazionali del cinema italiano. Non solo aveva inventato una dinamica psicologica vincente (poi ripresa anche nei film più divertenti giunti in un secondo momento), ma dopo tre film western, seguiti dall’arrivo dei due Trinità di Clucher, mio padre ebbe l’idea di tirar fuori la coppia dal contesto western e inserirla in un film contemporaneo che intitolò Più forte ragazzi. Quel film è stato il precursore di tutti i film di un filone ricchissimo che la coppia Hill/Spencer ha cavalcato per anni”.
Hai scritto un romanzo (Le parole mancate, edito nel 2013) che cerca di spiegare e analizzare il rapporto che avevi con Giuseppe e anche quello che è mancato, poiché purtroppo tuo padre è scomparso nel ‘78 quando tu eri appena adolescente. Hai mai pensato di raccontare il vostro rapporto in un film? Mi viene in mente, ad esempio, ciò che ha fatto Francesca Comencini con Il tempo che ci vuole.
“Purtroppo mio padre è andato via di casa che avevo sei anni e quando molto tempo dopo io e mio fratello abbiamo cominciato a frequentarlo abbastanza assiduamente, ha avuto un infarto che non è riuscito a superare. E’ stata una figura che mi è mancata moltissimo e a un certo punto della mia vita ho sentito il bisogno di affrontarla in un libro.
Avevo già scritto un romanzo e una notte ho sognato che trent’anni dopo la sua morte, un vecchio che sosteneva di essere mio padre, bussava alla mia porta dicendo di essere tornato. Quando la mattina ho ricordato il sogno, che ovviamente era più articolato di così, mi sono detto che poteva essere un incipit interessante per una storia che poi effettivamente ho scritto. Più volte, rileggendo il romanzo, ho pensato che se ne poteva fare un film. Forse un giorno capiterà”.
Ti sei laureato all’Università La Sapienza di Roma in Storia e Critica del Cinema con una tesi su Rainer Werner Fassbinder. Hai anche scritto e diretto il documentario intitolato Tutte le donne di Fassbinder (1999). In che modo e in che cosa la figura del regista tedesco ha influenzato la tua filmografia?
“Mi ricordo che una volta, dopo aver girato il mio primo film L’ospite, incontrai Callisto Cosulich (che era un critico cinematografico piuttosto importante) e quando ci salutammo mi chiamò “il piccolo Fassbinder”. Naturalmente la cosa mi fece piacere anche se ero ben consapevole che Fassbinder era di un altro pianeta. Lo disse perchè probabilmente ne L’ospite avevo diretto gli attori in un modo abbastanza fassbinderiano.
Forse oggi usare questo termine non vuol dire più nulla, ma allora Fassbinder era davvero un gigante in grado di influenzare un sacco di giovani che cominciavano. Io ero tra loro. Il mio Tutte le donne di Fassbinder è un documentario, tratto dalla mia tesi di laurea, nel quale ho messo tutto il mio amore per il regista tedesco. Un documentario che mi ha dato anche tante soddisfazioni”.
Pensi esistano figure simili o che accosteresti a Fassbinder nel cinema contemporaneo italiano?
“Fassbinder è stato un caso a parte. Considera che è morto appena trentaseienne, con alle spalle più di 40 film, due serie tv, non so quante piéce teatrali scritte e rappresentate… Immagina che in un anno è arrivato a girare sei film. Non esiste nessuno come lui, anche perchè il cinema in 40 anni è cambiato totalmente”.
Hai collaborato spesso con tua moglie, la sceneggiatrice Silvia Cossu. Per esempio nel Il sesso dopo i figli. Com’è stato lavorare a contatto sul set con la propria partner?
“Sì, è vero, con Silvia abbiamo fatto moltissime cose insieme. A volte ha funzionato bene, a volte meno. Penso comunque che non sia facile mescolare la vita sentimentale con il lavoro. Noi l’abbiamo fatto per anni, poi la cosa è finita”.
Hai girato il documentario Io lo so chi siete, sulla storia di Vincenzo Agostino. Pensi che il cinema possa influire o abbia influito nella lotta contro la mafia?
“Qualsiasi forma di criminalità prospera nel silenzio. Raccontare, mettere in luce, è sempre un processo positivo che aiuta le persone a prendere coscienza di un problema. Questo è il primo passo perchè una società muova verso un cambiamento. La presa di coscienza”.
La criminalità è un tema ampiamente trattato dal cinema italiano. Secondo te si sta perdendo varietà nei generi trattati? Qual è l’eredità per i posteri del cinema italiano di oggi?
“La criminalità spesso è raccontata per certi suoi caratteri che riguardano l’azione. In quel caso si tratta di mero intrattenimento. A me interessa un cinema più di riflessione. Comunque una volta i generi hanno fatto grande il cinema italiano e quando si riprendono certi filoni penso sia una cosa positiva. Su quello che succede oggi davvero non sono molto preparato. Negli ultimi anni sono talmente preso dal lavoro che non riesco a seguire troppo quello che succede”.
Hai aperto una scuola di cinema a Roma, la LAC (Laboratorio d’Arte Cinematografica), dove insegni regia. Cosa ti ha spinto a farlo? Qual è secondo te l’approccio migliore per insegnare cinema oggi in Italia?
“Ho insegnato regia per circa otto anni in una scuola di Roma. Lì ho imparato a conoscere i giovani e mi sono appassionato al loro bisogno di esprimersi. Quando ho avuto l’idea di fondare Il Laboratorio, l’ho fatto sull’onda di questa passione, e soprattutto l’ho fatto immaginando quale potesse essere veramente il modo migliore per loro per poter imparare il linguaggio del cinema. E continuo a non aver dubbi sul fatto che accanto a un’introduzione teorico-tecnica di cui ciascun corso necessita, solo la pratica laboratoriale può portare i ragazzi e le ragazze a formarsi professionalmente in modo serio.
Non è un caso se ho scelto di chiamare questa scuola, Laboratorio d’Arte Cinematografica. Volevo fosse chiaro da subito cosa si faceva qui dentro. I frutti cominciano ad arrivare ed è molto gratificante vedere i giovani con cui hai collaborato, crescere e muovere i primi passi in questo mondo. Il punto di forza della LAC sta nella collaborazione continua tra gli allievi di cinema e quelli di recitazione. Il set è il loro punto di incontro creativo. Quando questa sinergia funziona, e succede spesso, è bellissimo starli a guardare”.