125Views
Le interviste: Boris Sollazzo: “Bisogna tornare ad avere la libertà di sbagliare”
Abbiamo fatto una chiacchierata con Boris Sollazzo, ex direttore dell’Hollywood Reporter Roma e organizzatore del Linea d’Ombra Film Festival.
Nel panorama giornalistico italiano, Boris Sollazzo è decisamente un professionista eclettico: appassionato sia di cinema che di calcio, riesce a scrivere e parlare con competenza di entrambi. E da alcuni anni è direttore artistico di un festival che esplora la creatività in ambito cinematografico: il Linea d’Ombra Film Festival, che si terrà a Salerno dal 9 al 16 novembre (qui trovate il programma completo).
Con lui abbiamo parlato del suo festival, del panorama cinematografico, della sostenibilità – soprattutto economica – del cinema in Italia, di giornalismo culturale e di autori coraggiosi del nostro cinema.
Cogliamo l’occasione per ringraziarlo ancora una volta per la gentilezza e la competenza.
Almanacco Cinema presenta: l’intervista a Boris Sollazzo, giornalista cinematografico (e non solo)
Boris, cosa dobbiamo aspettarci da questa nuova edizione del Festival Linea d’Ombra?
“La continuità: abbiamo scelto di dedicare sia quest’edizione che la prossima al tema dei diritti, un tema ineludibile che abbiamo dato per troppo tempo per scontato. Una delle innovazioni sarà “L’ora dei diritti”, dove parleranno autori che si sono occupati di questo tema o esponenti che si sono contraddistinti nel campo della difesa dei diritti.
Ci saranno sempre grandi ospiti. In prima serata ci saranno i ring, che sono un modo di raccontare il cinema attraverso chi ha avuto carriere importanti o in questo momento ha grande visibilità, come fatto in passato con Moretti, Virzì e Bellocchio.
Poi siamo molto soddisfatti dell’altissima qualità dei concorsi: quest’anno sono arrivate tante belle cose. Questo è il segno che il cinema, pur in un’epoca di crisi nera anche economica, continua ad essere creativamente sulla breccia. Siamo soddisfatti del lavoro che stiamo facendo, tra l’altro in un momento nel quale fare cultura non è facilissimo”.
Guardando il programma, mi pare di capire che voi diate molto spazio al cinema italiano: secondo te qual è lo stato di salute del nostro cinema? Quali sono i punti forti e quali quelli deboli?
“Il punto di forza dell’Italia è sempre e solo uno, in qualunque contesto: la biodiversità. Nel senso che nell’arte, anche nello sport o in qualsiasi altro campo, per la nostra conformazione, per l’essere stati contaminazione di culture, noi abbiamo all’interno del nostro Paese una varietà enorme: fisica, emotiva, culturale e di pensiero.
Questa biodiversità è spesso accompagnata dall’eccellenza. Credo che ciò che rende la vita difficile nel nostro Paese sia ciò che stimola le menti a superare ostacoli che altri non sono capaci di superare. Ad essere abituati a cavalcare cavalli imbizzarriti.
La cosa positiva sono i talenti, che non mancano. Sono interessanti, hanno sempre visioni originali. Però il nostro è anche un cinema che ha enormi problemi a livello industriale, strutturale e politico. Che quando fa un passo avanti ne fa tre indietro, come con la recente riforma. (…)
E la cosa incredbile è che il cinema viene considerato come un angolo di privilegio, quando invece è una delle industrie più rilevanti in termini di entrate, e per lo Stato anche in termini di coinvolgimento fiscale e occupazionale. Quello che nessuno capisce è che ogni euro speso dal pubblico per il cinema viene, nel peggiore dei casi, raddoppiato.
Per fare un esempio il settore dell’automotive, che ha ricevuto molti più soldi, non ha raggiunto nemmeno lontanamente questo livello di conversione numerica. Dobbiamo crescere perché l’arte non ci supporterà sempre: Leonardo da Vinci, senza un mecenate, non sarebbe stato Leonardo Da Vinci. Probabilmente sarebbe morto povero e pazzo.
Non si può contare solo sui talenti, perché quei talenti, prima o poi, smetteranno di crescere. Non so se qualcuno può considerarmi un talento, ma il fallimento della rivista per cui lavoravo, l’Hollywood Reporter Roma, potrebbe in questo momento obbligarmi a cambiare settore. Se qualcuno considera la mia una voce necessaria per la lbertà e la varietà d’espressione, questa è una voce che potrebbe spegnersi.
Lo dico perché immagino che tantissimi artisti, giornalisti e operatori culturali si trovino nella mia stessa situazione. Ti faccio un esempio: nel cinema i registi e gli sceneggiatori under 35, per il 75%, vivono sotto la soglia di povertà, guadagnando meno di 15.000 euro l’anno.
Questo che cosa vuol dire? Che la nostra arte non può essere libera se i nostri artisti non possono condurre una vita dignitosa e, probabilmente, guadagnare in altri settori che li rendono meno liberi. Oppure essere costretti ad accettare lavori che non li rispecchiano, con produttori troppo invadenti.
Questo è gravissimo, ed è qualcosa che avvelenerà i pozzi. Perché noi potremo bearci quanto ci pare di Sorrentino, Garrone e Mainetti, ma se le prossime generazioni vivranno nella povertà ad un certo punto perderanno la creatività e la libertà, e questo è un problema enorme, di prospettiva. Un problema che vediamo anche nel calcio e ci ha resi uno degli ultimi campionati in Europa.
Noi vediamo solo le ultime conseguenze, il fatto di non aver partecipato agli ultimi Mondiali, ma avevamo davanti la situazione sin da quando il Mondiale lo vincevamo a Berlino ma era come una supernova: una stella che brillava prima di morire. La stessa cosa che è successa con lo sport rischia di succedere con il cinema”.
ll problema, mi pare di capire, è sempre e comunque la sostenibilità.
“Siamo in un’emorragia di sostenibilità, e la sostenibilità è la prima base della libertà d’espressione. La possibilità di sbagliare, di fallire. C’è un film meraviglioso che parla proprio di questo e che consiglio a tutti: è Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini. A un certo punto, citando Beckett, Luigi Comencini dice a sua figlia: ‘Continua a fallire, non ti spaventare. Solo chi tenta può fallire. Solo ogni volta fallisci meglio’.
In uno dei nostri pranzi, Mario Monicelli, parlando dei giovani Sorrentino e Garrone, si disse preoccupato per loro dicendo: ‘Io facevo un film all’anno, e potevo sbagliare. Avrò sbagliato 5,6,7 film. Ma nessuno se li ricorda perché ne ho fatti molti di più buoni‘. Oggi, spesso, le carriere dei registi constano di 5-6 film, quindi sbagliarne la metà è drammatico. Bisogna tornare a poter sbagliare.
Il mio allenatore – ho fatto sia pallavolo che pallanuoto – mi diceva: ‘O vinci o impari: non perdi mai’. È così”.
Oggi occuparsi di cinema in Italia è difficilissimo, a livello di sussistenza. Questo vale anche per quanto riguarda il giornalismo…
“Sì, assolutamente”.
Ho letto di recente un’inchiesta fatta da te sulle interviste a pagamento: che cos’è successo nel mondo del giornalismo?
“Quello è un articolo che stato malinteso: io raccontavo una dinamica industriale abbastanza ovvia e hanno fatto finta che non esistesse. Le produzioni giornalistiche pagano i divi: le distribuzioni si fanno far pagare una soprattassa dalle produzioni che gli hanno giò venduto il film.
Io lo trovo folle, perché in questo modo l’intervista non diventa più un contenuto culturale ma esclusivamente promozionale. Bisogna essere sinceri: se si vuole solo far promozione, come sta accadendo, che si invitino solo influencer ed esperti di marketing. Noi non serviamo.
Probabilmente non c’è più una reale funzione del giornalista. Bisogna prendere coscienza di questo”.
Adesso esistono anche altri ambiti: oggi, anziché lavorare nella carta stampata e online, ti puoi anche reinventare con i podcast ed esplorando altre forme di comunicazione.
“Ti faccio una domanda. Io ho due figli: conosci qualcuno che riesca a mantenere con un podcast due figli, una famiglia di quattro persone? Oppure si pensa che chi fa cultura e comunicazione non debba avere la stessa vita degli altri? È una questione che non interessa. La gente si informa sui social, la memoria storica è costruita attraverso le docuserie.
A livello di comunicazione, probabilmente i podcast sono il futuro. Ma devono diventare sostenibili. Io sento continuamente i podcast e la radio. Due strumenti che sono estremamente meritocratici, ma sono privi dell’intermediazione che una volta dava autorevolezza al giornalista.
Ora ci dev’essere un rapporto diretto tra il fruitore e chi dà l’informazione, spesso rappresenta uno scadimento di qualità perché chi dà l’informazione cerca di fare i numeri (e si verifica il fenomeno del clickbaiting). Radio e podcast sfuggono ancora un po’ a questo sistema, ma sentire direttamente la voce della persona dà l’illusione della mancanza di intermediazione.
Un podcast ti può fruttare al massimo 4.000 euro. E il tempo che ci vuole a produrre un podcast ben fatto non si discosta molto da quello che ci vuole per produrre una serie televisiva”.
Alleggeriamo un po’ l’atmosfera con una domanda per il Boris appassionato di cinema: c’è un autore emerso in questo periodo che ti entusiasma in modo particolare?
“Pietro Castellitto e i fratelli D’Innocenzo. Perché si prendono la libertà di sbagliare e per questo non lo fanno quasi mai: perché non hanno paura di farlo. Perché non pensano a quello che potrebbe piacere ma al fuoco sacro che hanno dentro. Perché si vede che si divertono in quello che fanno, senza nessuna mediazione.
Perché non hanno paura di dire le cose come stanno, anche quando sono scomode. Perché con pochi film hanno messo in pensione buona parte dell’immaginario del vecchio cinema italiano“.
Se dovessi scegliere un’opera imperdibile da vedere per ciascuno di loro, quali sceglieresti?
“Enea per Pietro e la serie Dostoevskij per i fratelli D’Innocenzo. La serie ha un coraggio leonino, anche nell’ambito della serialità, con un Filippo Timi incredibile”.