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Le interviste: Ciro Formisano, regista di L’anima in pace
Abbiamo intervistato Ciro Formisano, regista del film L’anima in pace, in occasione di una proiezione speciale del Cineteatro Buonarroti di Civitavecchia.
Originario di Torre del Greco, Ciro Formisano è un regista che ama occuparsi di cinema sociale: come quello di cui è espressione anche L’anima in pace, il suo ultimo film, che racconta la vita di una ragazza della periferia romana che lavora come facchina durante il periodo del lockdown.
In occasione di una proiezione del film al Cineteatro Buonarroti di Civitavecchia lo abbiamo intervistato in merito: ecco cosa ci ha raccontato.
L’intervista di Almanacco Cinema a Ciro Formisano
Hai ambientato il tuo film all’epoca del lockdown, in un periodo difficile ma foriero di molti spunti artistici, e hai scelto un punto di vista inconsueto: quello di una ragazza che può spostarsi grazie al suo lavoro, perché consegna la spesa a domicilio. Come mai hai scelto questo punto di vista in particolare?
“È stato un periodo molto proficuo per me perché ho scritto un libro, ho girato un documentario e dopo ho scritto la sceneggiatura di questo film. In realtà, durante il lockdown consegnavo la spesa a domicilio per un gruppo del comitato di quartiere che si era organizzato per portare la spesa a persone bisognose, anziane o malate. Lì dove si smistava la spesa per noi volontari c’era chi lo faceva per lavoro: tra questi ragazzi c’era una donna. E lì ho visto la mia Dora. Da lì è partito tutto”.
La tua Dora, interpretata da Livia Antonelli, come l’hai scelta?
“È stato difficile. Sono state provinate più di 60 attrici, tutte dai 19 ai 25 anni, alcune famose e brave, ma non ci credevo mai. Livia è stata l’unica che mi ha colpito subito perché… ci credevi. Le altre, anche se alzavano una cassa d’acqua capivi che non lo avevano mai fatto. Lei alzava le casse d’acqua con una maestra… ma soprattutto aveva questo mare agitato dentro, che è vero. Quando gliel’ho visto mi sono detto: “Come faccio a riprodurla questa cosa? Lei ce l’ha già”.
Ed è sorprendente. Nel film lei incontra Andrea, che è figlio di un primario: nella realtà Livia è figlia di un luminare, un medico importantissimo a Roma, e quindi è lei il vero Andrea. Non parla romanesco mai, a volte le venivano fuori frasi in italiano perfetto e io le dicevo: “No, non va bene” (ride, ndr). Dovevo riprenderla più volte affinché sporcasse il suo modo di parlare”.
Prova d’attrice superata. Comunque non era il suo primo film…
“No, lei ha una solida formazione come attrice, viene fuori dalla Volonté. Ma non era scontato che una come lei potesse avere subito un ruolo da protagonista, dopo aver fatto pochissimo cinema, anche se molto teatro. Lei è una che rifugge da sé stessa: questo è un limite, però io ci ho visto il pregio”.
Mi hanno colpito molto le tue scelte di casting. Per il ruolo della madre-bambina di Dora hai scelto Donatella Finocchiaro: come mai proprio lei?
“Sono rimasto folgorato da lei 20 anni nel suo primo film, Angela di Roberta Torre. Ho detto ‘Ma quanto è brava, quanto è bella, un giorno vorrei lavorare con lei’. Poi un giorno l’ho incontrata a un festival e le ho detto: ‘Tu devi fare questo ruolo’. Lei mi ha detto: ‘Sì, poi lo facciamo, non ti preoccupare’.
Quando poi ci siamo dati appuntamento per parlarne, lei mi ha detto: ‘Senti, ho un’occasione enorme perché inizio a girare la serie Disney I leoni di Sicilia. Visto che sono secoli che non mi capitava un ruolo così, ora non posso girare il tuo film. Fammi leggere e vediamo’. Poi ha letto la sceneggiatura, si è innamorata del personaggio e mi ha detto: ‘Lo voglio fare questo film, mi sono stancata di fare la mamma piagnucolona’.
Visto che giravamo a luglio, siamo diventati la seconda chiamata: quando non girava con Disney c’eravamo noi. Così diventa molto complicato organizzare un set, tra attori e tecnici. Poi era il 2022 ma avevamo ancora il problema del Covid: noi dovevamo girare a maggio però abbiamo dovuto aspettare che a fine giugno scadesse il decreto dei tamponi obbligatori sul set perché non avevamo i soldi.
A luglio il nostro film si è accavallato a I leoni di Sicilia. Una mattina mi ha chiamata allarmatissima perché sull’altro set l’avevano trovata positiva al Covid e non poteva girare. Eravamo molto preoccupati. Dopo un po’ ho visto la truccatrice con la mascherina che tossiva, io che tossivo – sapevamo di essere positivi – l’ho chiamata e le ho detto: ‘Donatella, qui siamo tutti positivi, vieni a girare’. E alla fine abbiamo girato, in santa pace, per una settimana consecutiva”.
Donatella Finocchiaro è presente in una delle scene pù toccanti del film, la scena dell’abbraccio in cucina: vuoi raccontarci qualche dietro le quinte di quella scena?
“È una scena molto importante. In realtà quella cucina è divisa in due parti: Lia da una parte e Dora dall’altra. Rappresenta l’opinione pubblica, la spaccatura tra chi pensa che un bambino debba comunque stare con la sua famiglia, nonostante questa sia problematica, e chi crede nell’affido.
Io sono al centro di quella cucina, io stesso non riesco a capire quale posizione prendere. In questo caso, qual è la decisione giusta? Dora è al centro di un gruppo di persone che vogliono tutte qualcosa da lei, mentre lei vuole solo i suoi fratelli. Io ho visto tantissimo amore, anche se questo film è stato scelto da un’associazione di psicoterapeuti e mi hanno detto che ciò che c’è tra Lia e Dora è una patologia che si chiama ‘sindrome dell’accudimento invertito'”.
Riguardo al rapporto malato tra Dora e Juri (un ragazzo che lei frequenta, ndr), mi colpisce il fatto che tu racconti un personaggio femminile che soggiace a una relazione vittima-carnefice ma poi riesce ad affrancarsene?
“Il rapporto tra Juri e Dora si ispira a quello che ha appreso nella sua educazione. Lei usa il sesso come moneta di scambio: lo fa con Juri, lo fa con Andrea per mostrargli gratitudine e benevolenza. Nel momento in cui lui mostra la sua possessività, lei si ribella”.
Nel ruolo della “suocera” di Dora hai voluto Daniela Poggi, attrice diventata famosa per le fiction televisive che hai voluto anche nella tua opera prima, L’esodo. Come mai questa scelta?
“Daniela è una grande amica ora, ma prima che iniziassimo a lavorare insieme eravamo perfetti sconosciuti. Lei ha accettato un ruolo che sembrava maledetto. L’esodo è un film politico, scomodo, che nessuno voleva fare perché parlava di una classe politica appena decaduta: quella dei ‘professori’ del governo Monti. Chi accettava di fare il film, dopo un mese mi chiamava per dire che aveva cambiato idea. Lei invece ha accettato subito”.
Mi sembri molto libero nelle scelte…
“I miei film si fanno con poco, non devo dare conto a nessuno”.
Qual è la scena che è stata più divertente da girare?
“All’inizio c’è un ragazzo sulla panchina che dice a Dora ‘Guarda che tua madre è qui sotto’: quello non è un attore e gli avevamo chiesto solo di dire questa battuta. Mentre stavamo girando questa microscena arriva quest’uomo con una bottiglia rotta in mano, con l’intenzione di far male a quello sulla panchina. Era geloso perché all’altro avevamo dato un ruolo mentre a lui no.
Diceva che lui era appena uscito di galera e non gliene fregava niente. Era il padre. Mentre succedeva tutto questo, erano scappati tutti: siamo rimasti solo io, lui, e il ragazzo sulla panchina. L’ho preso da parte e gli ho detto: ‘Ti prego, facci girare questa scena e ti prometto che domani ti dedico una scena. Però ora te ne devi andare’. Lui se n’è andato e il giorno dopo abbiamo girato questa scena. È l’uomo che suona i coperchi”.
C’è un messaggio in particolare che volevi comunicare con questo film?
“Che la bellezza si può trovare anche in luoghi inattesi. Penso che gli spettatori lo abbiano ampiamente colto”.