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Almanacco Cinema presenta: l'intervista a Omar Rashid, regista di Generazione fumetto

Le interviste: Omar Rashid, regista di Generazione fumetto

In occasione del Lucca Comics and Games abbiamo intervistato il regista e producer Omar Rashid, che ha diretto il documentario Generazione Fumetto.

Il fumetto è un media che sempre più è entrato a far parte della nostra cultura. Nel settore editoriale, è anzi il genere editoriale maggiormente in crescita: secondo i dati riportati dalle ricerche di mercato (aggiornati al 2022), sarebbero oltre 10 milioni i lettori di fumetti in Italia, che rappresenterebbero circa il 23% della popolazione, e si parla di un pubblico di lettori compresi tra i 15 e i 74 anni. In poche parole, oggi oltre un libro su dieci venduto (nelle librerie, online e nella grande distribuzione) è un fumetto.

Lo scorso anno (2023) il Ministero della Cultura, nell’ambito di una convenzione quadro con RIFF – Rete Italiana Festival di Fumetto, aveva lanciato un bando che proponeva di rispondere ad un quesito: comprendere il valore sociale, culturale ed economico del settore del fumetto in Italia. Maria Luisa Catoni e Yesim Tonga, nel loro studio, avevano affermato che il fumetto è un linguaggio che sfida le distinzioni fra vecchie e nuove generazioni”.

E probabilmente è proprio questo il focus: è proprio questo è il punto di forza di questo media, che si pone come trait d’union fra la generazione dei millennials (ma forse anche quella dei cosiddetti boomer) e quella dei nativi digitali. Quello che è certo è che il fumetto rappresenta a tutti gli effetti un pezzo di storia, e come tale è importante raccontarlo.

Oggi a farlo è Omar Rashid, giovane regista nato in Iraq e adottato da Firenze, che quest’anno ha presentato in anteprima al Lucca Comics and Games la prima parte del suo documentario dal titolo Generazione fumetto.

Rashid ha scelto di raccontare il mondo dei comics ponendo i protagonisti dell’attuale panorama a fumetti italiano al centro del racconto. Per la creazione della sua opera, il regista ha seguito per circa un anno alcuni tra i più noti autori di oggi, da Mirka Andolfo a Giacomo Bevilacqua, Rita Petruccioli, Sara Pichelli, Maicol & Mirco, Sio e Zerocalcare, partendo dalla scorsa edizione del Lucca Comics, passando per il Comicon, e quindi seguendoli nelle sessioni di firma-copie e raccontandoli anche attraverso interviste mirate.

Il focus di questo documentario, come Rashid tende a sottolineare, è parlare di fumetto come di un vero e proprio linguaggio, peraltro in continua evoluzione.

Omar Rashid

Almanacco Cinema presenta: l’intervista a Omar Rashid

Omar, viviamo in una società che tenta di incanalare le professionalità -e in un certo senso anche le personalità – in compartimenti stagni. Tu sei un personaggio eclettico, decisamente difficile da classificare: il tuo curriculum spazia a 360 gradi, dal fashion, al cinema, fino anche al lavoro tecnologico, attraverso la creazione di una app (la Gold AR). Tutte queste cose rientrano, comunque, nella dimensione artistica. Quindi ti domando, essendo questi linguaggi molto diversi, come utilizzi l’arte come forma di comunicazione?

“Dunque, io nel mio percorso un po’ frastagliato, ci vedo in realtà una linea unica: quella del contenuto. Nel senso che credo che la cosa importante sia quella di avere qualcosa da dire, e poi il “contenitore” è indifferente. Quindi l’arte io la vedo come qualcosa che – appunto – è qualcosa da dire che poi si adatta o sceglie il contenitore più adatto in base a ciò che le calza meglio.

In poche parole, non vedo tanta differenza tra creare una maglietta e fare un film, nel senso che è sempre un contenuto: in un caso -su una maglietta- si esaurisce molto rapidamente, e nell’altro caso ha bisogno appunto di più tempo per essere raccontato; e in altri ancora ha bisogno di altre forme, di libro, di fumetto o di esperienze di realtà virtuale… quindi per me è sempre questo il punto di partenza: avere qualcosa da dire e capire come dirlo”.

Dunque tu credi che questo tuo “qualcosa da dire” il pubblico sia poi in grado di comprenderlo ed interpretarlo da solo attraverso le immagini che dai? O pensi che vada spiegata?

“Beh, è ovvio che io vorrei che il pubblico la capisse senza troppe spiegazioni. Chiaramente, è sempre più piccola quella parte di pubblico che non ha bisogno di spiegazioni, perché viviamo in una società che vive costantemente sotto una stimolazione continua. Iperstimolare porta a trattare tutto con una leggerezza estrema: c’è chi vede, legge, commenta dei film senza apparentemente capire ciò che ha visto, spesso e volentieri, perché magari vedendo con distrazione non coglie ciò che vuol dire il regista… perché c’è bisogno di spiegarlo. Ma l’arte dovrebbe parlare da sola.

Faccio sempre l’esempio dell’arte contemporanea: chi, davanti ad un’opera di arte contemporanea, dice frasi tipo “il mio bambino la poteva fare meglio!” non si sta sforzando di capire veramente in quell’opera cosa c’è. A prescindere dal capire un’opera, però, è importante che questa ti colpisca. Magari la capisci dopo, ma se ti colpisce, ti colpisce subito.

La mia compagna è una danzatrice-coreografa: lei non ha un linguaggio che io riesco a comprendere subito o che mi appartiene, però quando vedo qualcosa di suo che è bello, lo trovo bello subito, mi arriva! Quando devi spiegare un’opera, vuol dire che forse manca qualcosa…”.

Dato che siamo al Lucca Comics, la domanda che ti faccio ora viene spontanea: dove nasce la tua passione per il fumetto e, come artista, il tuo incontro col mondo dei comics?

“Beh, come per tutti questa passione mi nasce sin da bambino: credo che, in fondo, tutto ciò che faccio sia mosso, in qualche modo, da un mio essere rimasto… non dico “bambino”, ma non avere mai perso quello che è il lato ludico della vita. Non mi sono mai vergognato di continuare a leggere i fumetti, non mi sono mai vergognato di continuare a giocare ai videogiochi o di comprare i giocattoli, anche a 40 anni.

Dunque, per me questa passione è nata da bambino. Semplicemente, non l’ho fatta morire. Come tutte le altre. Ti ripeto, per me il filo conduttore – che forse ci vedo solo io – tra le cose che ho fatto: cinema, moda, street-art, realtà virtuale, è la passione. Sono tutte cose che mi piacciono! In altre parole: non è che ora che sto facendo un documentario sul fumetto significa che soltanto adesso ho cominciato a studiare il fumetto! Semplicemente, si è creata la condizione per farlo.

Sai com’è nato questo progetto? Giacomo Bevilacqua mi ha fatto una battuta: “potresti fare un documentario sul fumetto”, e io ho risposto: “è vero, potrei farlo!”… e l’ho fatto sul serio. C’è il famoso bisogno dello stimolo. Perché di base, su ogni cosa che faccio – proprio perché si tratta di passioni – in un primo momento mi sembra difficile che possa interessare a qualcun altro. Poi, invece, quando vedo che qualcun altro ci crede, mi motivo e vado a farlo”.

Il cinema è conosciuto come la Settima arte. Il critico francese Claude Beylie ha definito il fumetto “la nona arte”, riprendendo e ampliando la definizione delle sette arti. Dunque, ti domando: che importanza pensi che abbia questo nuovo media, il fumetto, sia nel campo della comunicazione, che in quello della formazione, per le nuove generazioni?

“Il documentario che sto facendo è proprio incentrato sul fumetto come linguaggio. A mio parere il fumetto è un medium potentissimo, attraverso il quale si può raccontare tutto. Forse ora più che mai, in un’epoca in cui siamo iper-stimolati dall’audiovisivo, con il fumetto possiamo avere qualcosa che è comunque visivo ma anche statico, che magari rimane di più di un prodotto video.

Prendiamo l’esempio di TikTok. Premetto che non ho nessun risentimento riguardo a questo social, e sono certo che si possa creare arte anche in 7 secondi, ma le poche volte che l’ho esplorato, la maggior parte dei contenuti che ho visto su questo social erano intrattenimento fine a sé stesso. Una volta visti non ricordavo già più che cosa avessi visto, non mi era rimasto niente.

Dei fumetti, invece, è diverso: ricordo ancora le emozioni provate quando lessi quel determinato albo di Topolino nell’ ’88, quando c’erano le Olimpiadi a Seoul, episodio che ricordo benissimo! E ancora ora, quando leggo un fumetto, così come quando vado al cinema, beh… è qualcosa che mi rimane bene impresso.

Ultimamente, col cinema è cambiato qualcosa: in mezzo al grande quantitativo di film che escono, ci sono davvero poche cose che ci fanno dire “wow”. Se ripenso a un film che mi ha davvero fulminato, nell’ultimo anno, è stato La zona di interesse, perché è veramente particolare: ha fatto un discorso diverso rispetto a tanti altri film. Per me non è un film che parla dell’Olocausto, ma un film che parla di presente, del NOSTRO presente. Però utilizzando la storia, il cinema, l’identificazione del male col nazismo: ecco, è uno dei pochi film recenti che mi sento di dire: “Questo è un capolavoro!”.

Col fumetto, ultimamente, mi è capitato più volte di dire: “Questo linguaggio è più efficace di un film”. Perché mi rimane qui, fra le mani. E dunque, forse, può essere ancora più forte”.

Nel tuo docu-film, Generazione fumetto, hai intervistato vari autori importanti: qual è il focus del tuo lavoro?

“Come già detto, è il linguaggio: ho cercato, attraverso lo sguardo di 7 artisti della stessa generazione, molto diversi tra loro, di raccontare il medium fumetto seguendo il principio che esplorando il particolare racconti il generale. Ovvero, attraverso quel micro-sguardo racconti il macro-mondo del fumetto.

Ho scelto artisti molto distanti tra loro, proprio perché volevo comunicare il concetto che non c’è differenza tra una vignetta, come quella che possono disegnare Maicol & Mirco, o qualcosa di più complicato come il lavoro di Rita Petruccioli o Zerocalcare. Però il linguaggio è lo stesso.

C’è una frase che dice Francesco Artibani nel documentario, che mi sembra molto efficace a rendere questo concetto: “Tra Kubrick e i fratelli Vanzina c’è differenza, perché chiaramente fanno cose diverse… ma il linguaggio è lo stesso: il cinema”.

Il cinecomic è un genere nuovo in Italia, e forse non è stato ancora del tutto compreso. Nel passato ci sono stati tentativi di “tradurre” su grande schermo i protagonisti delle avventure di albi a fumetto come Diabolik del ’67. Ad oggi, diversi registi hanno tentato di avvicinarsi al genere con approcci molto diversi: penso ai Manetti Bros. con la nuova trilogia di Diabolik, appunto, ma anche Gabriele Mainetti con Lo chiamavano Jeeg Robot e Il ragazzo invisibile di Salvatores…

“Io sono un fan dei cinecomic! Anche nei fumetti, uno dei generi che mi ha sempre appassionato moltissimo è proprio quello supereroistico. E, dunque, ho divorato i film dei supereroi, mi piacevano tutti, persino Lanterna verde! (ride) Vedere sul grande schermo i personaggi che leggevo su carta mi è sempre piaciuto moltissimo. Chiaramente, mi dispiace che in Italia si sia indietro su questo fronte.

Oltre ai film che hai citato, sono stati fatti altri tentativi, alcuni dei quali molto sbagliati forse… credo che il motivo per cui nel nostro Paese il cinecomic non sia un genere sufficientemente affrontato, o perché i film di questo genere – come Diabolik dei Manetti – non siano andati troppo bene, sia dovuto a diversi fattori. Parlando con Mainetti, ad esempio, si ragionava sul fatto che lo stesso Jeeg Robot derivi piuttosto dall’anime che dal fumetto.

Di fatto c’è un’assenza dell’Italia nel fumetto: Dylan Dog è ambientato a Londra, Martin Mystère è ambientato a New York, Diabolik è ambientato a Clerville! Solo Zerocalcare ha cominciato ad ambientare i suoi fumetti a Rebibbia. Dunque Clerville stona col presente, perché il linguaggio cinema richiede realismo, a meno che non si decida di utilizzare toni grotteschi. I Manetti, probabilmente, hanno cercato di rifarsi ad un tipo di cinema ormai superato, dunque Diabolik funziona molto ma per un certo tipo di target, quel target che è cresciuto con quel tipo di film (e di fumetto).

Per tornare alla tua domanda e al futuro del cinecomic qui in Italia: arriverà! O meglio, secondo me – come è già avvenuto, in parte, con Zerocalcare – prima arriverà l’animazione basata sui fumetti.

Sicuramente sarebbe difficile pensare a un film su Lupo Alberto o sulla Profezia dell’armadillo… il linguaggio cinema deve essere più verosimile, mentre il linguaggio fumetto ti permette una sospensione dell’incredulità diversa, che è più vicina – e conseguente – a quella dell’animazione. Un sole che ride, nel fumetto, ci sta; nel cinema, a parte la luna di George Melies, ma si parla di proto-cinema, ci sta decisamente di meno!

Quindi, prima di arrivare a fare un cine-comic italiano, c’è bisogno di storie adatte a farlo. Ci sono già tante graphic novel che secondo me funzionano: Vita di Adele, Pollo alle prugne, Era mio padre sono tutti film tratti da fumetti… ma questa cosa lo sappiamo solo noi, lettori di fumetti, perché non c’è nulla di “fumettistico” in quei film. Mentre il cine-comic è riconoscibile, il richiamo al fumetto è evidente.

Penso a un fumetto che ho letto quest’anno, italiano: Nemici del popolo di Emiliano Pagani e Vincenzo Bizzarri… ecco, quello è già un film fatto e finito secondo me! Però, se se ne facesse un film senza esplicitare chiaramente che deriva dal fumetto, nessuno saprebbe che nasce da lì. Perché è tutto vero, tutto realistico, il linguaggio del fumetto è perfetto per raccontare quella storia; ma, se non lo sai, non hai elementi “fumettosi” o “fumettistici”, per così dire”.

Farai mai, da regista, un tuo film sui supereroi?

“Magari!”.