Giulia Grandinetti esplora la cultura patriarcale con Majonezë, tra il bianco e nero dei campi albanesi e il paesaggio emotivo di ribellione e desiderio.
Giulia Grandinetti firma un cortometraggio audace e raffinato: Majonezë (2024). Presentato in anteprima mondiale nella sezione Short Film Days della 21ª edizione di Alice nella Città, vince il Miglior Cortometraggio nella sezione Onde Corte. Si aggiudica inoltre la Miglior Regia a Cortinametraggio 2025 e si figura tra i finalisti ai David di Donatello 2025. Majonezë raggiunge il pubblico internazionale e gli appassionati del cinema d’autore, confermandosi come uno tra i diamanti del cinema italiano contemporaneo.
Mescolando realismo e allegoria, la regista mette in scena il desiderio di Elyria, una giovane ragazza albanese schiacciata dalla dura oppressione familiare e sociale. Grandinetti costruisce un immaginario che prende forma dall’emotività di Elyria, corrompendo il paesaggio spoglio con il colore emotivo.
Ersekë, Albania. Elyria è una giovane ragazza intrappolata in un villaggio sospeso tra la neve e il silenzio, rinchiusa in una bolla che vede un contesto familiare rigido e patriarcale. Elyria è solo un’adolescente in crescita, mossa dal desiderio di essere se stessa. Trova piccoli momenti di fuga e libertà con il fidanzato Goran, un ragazzo serbo. Ma un giorno, il padre comunica alla figlia che quella domenica lei si sposerà: un matrimonio combinato forzato che la inchioda a un destino già scritto. Non una nuova vita, ma una condanna funerea. Ma è lì dove tutto è immobile che il suo desiderio di ribellione crescerà fino a un punto di non ritorno.
Majonezë è un cortometraggio colmo di simbolismi e tematiche, che si colgono tra i silenzi e i gesti della composizione. Lo scontro più in generale è uno dei temi principali, sia esso culturale, sociale o tra l’arcaico e il nuovo. L’incomunicabilità espressa attraverso l’obbedienza cieca, una lingua non compresa o gli urli silenziati si estende dalle radici sino a tutto il paesaggio rurale. Lo scontro del mondo patriarcale è incarnato dalla famiglia di Elyria, in particolare nel padre, in una lotta costante con un presente che chiede libertà attraverso gli occhi stanchi e al tempo stesso combattenti della ragazza.
Inoltre, lo scontro è designato anche tra il padre di Elyria e Goran, il fidanzato della figlia, che tenta di dissuadere la ragazza dal matrimonio, opponendosi al padre di lei. Ma i due parlano lingue diverse, non possono comprendersi, oppure non vogliono. Grandinetti narra uno scontro che va ben oltre la barriera linguistica, abbracciando tensioni storiche, sociali e culturali profondamente radicate nella penisola balcanica.
Il paesaggio muta insieme a Elyria. La ragazza vive in un clima di aridità emotiva e precarietà, espresso emotivamente attraverso l’uso del bianco e nero che inonda il remoto paese albanese. Assomiglia a un purgatorio in cui ogni cosa è immutata, priva di vita. Quando, improvvisamente, Elyria si trova davanti a una scelta: la famiglia o Goran. Elyria sceglie e l’albero che si ergeva nel bel mezzo del nulla si tinge di un giallo oro irruente. Ma Elyria non ha scelto nulla che le venisse imposto, bensì se stessa.
Il realismo si tinge di una realtà che è tutta dell’anima, con sfumature teatrali. Elyria disobbedisce e i cieli si tingono di giallo, la sua è una scelta così potente che isola e rende impotenti tutto e tutti. Eppure, nonostante il giallo squarci la monotonia del bianco e nero, non sembra rivelare la felicità, piuttosto la trasformazione dominata da caos e dolore.
Giulia Grandinetti firma una regia incisiva e visionaria. La realtà è plasmata dalla nostra percezione e dalle nostre emozioni, e anche laddove tutto tace, tutto racconta. Niketa Dedja (Elyria) non ha bisogno di parole, perché è il suo sguardo a comunicare il rancore, la stanchezza e più in generale il suo viaggio interiore. La fotografia di Giulia Scintu è traduzione dello scontro generazionale e culturale nonché degli stati d’animo dei personaggi. La composizione alterna il bianco e nero con esplosioni di giallo oro, e inquadrature statiche a movimenti virtuosistici e dinamici. Il silenzio è accompagnato dalla musica mai invadente di Mario Russo, che permette allo spettatore di sprofondare nella vertigine. Tutto ci racconta di un’implosione imminente, sempre sull’orlo di accadere.
Elyria è sola in una locanda, ordina le patatine e chiede la maionese, ma questa non le viene concessa. La maionese non è un mero alimento, ma il simbolo di un desiderio negato. Un desiderio infantile, quasi insignificante, eppure anche questo ha bisogno di rivendicazione. In quel poco c’è tutto: un piccolo ed ennesimo atto di desiderio, di essere ascoltata, di scegliere e di stare sola. E solo dopo un delirio collettivo e l’urlo violento e disperato di Elyria di avere la maionese, questa le viene portata.
Majonezë racconta quanto, anche nelle sue forme più “insignificanti” quotidiane, la disobbedienza, la resistenza e la ribellione siano atti urgenti e potentissimi.
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