Parabola cruda e realistica sul male umano, Angst di Gerald Kargl ci immerge nella mente deviata di un killer, in un horror spietato alla luce del sole.
Era il 1983 e il regista austriaco Gerald Kargl esemplificò con circa un’ora e mezza di follia lucida la personificazione del male su schermo. Quando pensiamo alla paura e alla malvagità dell’essere umano non comprendiamo mai quanto essa sia banale e quanto possa nascondersi nella folla, sotto la luce del sole. Basato su una storia vera, Angst, all’epoca, passò quasi inosservato, ma col tempo si distinse per la sua radicalità formale e per la sua sapiente regia concettuale. Un film al limite tra il realistico e lo sperimentale, non è raro percepire un coinvolgimento esasperato ed esasperante con ciò che avviene nella mente di un uomo che si nutre della morte altrui.
Austria, un uomo è appena uscito di prigione dopo aver scontato dieci anni per aver commesso un omicidio. Nonostante il lungo tempo privato della libertà, nei suoi occhi – e tantomeno nelle sue intenzioni – non c’è redenzione, vita o gratitudine. Tutt’altro: vuole solo uccidere ancora e per sempre. Come un vampiro immune alla luce del sole, sin da subito, è la sua voce fuori campo a illustrarci un quadro inquietante e disturbante. Un flusso di coscienza sconnesso e confuso ripercorre l’infanzia tormentata, i traumi e la rabbia cieca dell’uomo, che ora ha solo sete di morte – l’unica cosa che lo fa sentire vivo.
Angst fa un ritratto del male attraverso il linguaggio cinematografico, che parlando mediante la forma, crea un’esperienza autentica per lo spettatore. L’opera incarna più un concetto che una storia: il protagonista non uccide per ideologia o vendetta, ma uccide come un voyeur della sofferenza altrui. Il nostro sguardo coincide con il suo, siamo nella sua testa attraverso il flusso di coscienza e dunque, è come se Kargl volesse farci immedesimare nello psicopatico (Erwin Leder). E in effetti ci riesce, poiché la sua angoscia si estende sino ad arrivare a noi. Inoltre, contrappone al killer, un elemento di tenerezza e innocenza, che quasi fatichiamo a riconoscere in un universo segnato dal male.
La regia di Gerald Kargl, la fotografia si Zbigniew Rybczyński e le musiche di Klaus Schulze, costruiscono un universo potentissimo. La camera è estensione del corpo del killer, quasi gli toglie il respiro come il malessere che lo governa. Contrastano le inquadrature bird eye, che lo seguono dall’alto mentre si destreggia, mosso dallo smarrimento, mentre noi avvertiamo un senso di dissociazione. La bird eye può essere letta come volere divino, e se accettiamo quest’accezione, possiamo dunque comprendere quanto il male si nasconda tra noi e sia parte integrante dell’esistenza. L’esperienza sonora amplifica l’inquietudine attraverso synth, silenzi e suoni ambientali organici e claustrofobici.
Angst anticipa tutto quel cinema dell’eccesso e della devianza totalizzante. Gaspar Noé ha dichiarato più volte il suo legame con il film, che ha segnato radicalmente il suo sguardo. In particolare, la sua opera prima Seul contre tous (1998) trova affinità nella voce interiore del protagonista (Il Macellaio) che ripercorre la sua esistenza e le sue devianze, in un flusso di coscienza amorale e ossessivo. È delirante ma lucido. Ma più in generale, tutto il cinema di Noé sonda quelle aree spesso nascoste e riluttanti, attraverso la soggettiva, la camera instabile e il disagio. Correlazioni anche con la dissoluzione di mente e corpo in Possession di Żuławski e la macchina da presa voyeuristica di Peeping Tom di Powell.
Proprio come il sangue e le tracce della violenza scolpite nel protagonista, che cerca invano di disfarsene, Angst resta impresso in noi. È un malessere viscerale che ci rende consapevoli di quanto, alla fine, il male sia invisibile e silenzioso – e ci appartenga. Il killer tenta di tornare in una sorta di normalità, come se uccidere fosse solo un modo di vivere. La luce opaca del giorno, la natura che assiste impotente e il nostro stesso silenzio rendono Angst un’esperienza che rimane. Il rigore freddo con cui il protagonista torna tra la gente comune, ben vestito, suggerisce molto più di qualsiasi dialogo o risoluzione.
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