Beau Travail racconta corpi e desideri come ricordi astratti, una danza visiva dove la disciplina diventa poesia e la composizione conflitto interiore.
Claire Denis firma con Beau Travail (1999) uno dei film più lirici e astratti del cinema contemporaneo. Liberamente ispirato al romanzo postumo di Herman Melville, Billy Budd, marinaio, nel film, desiderio e ossessione si fanno corpo, danzando tra i ricordi di un ex sergente. Un teatro sull’inafferrabile, la bellezza e il silenzio di un desiderio represso nei luoghi sospesi del Gibuti.
L’ex sergente maggiore Galoup (Denis Lavant) ripercorre fuori campo la sua esistenza nella base della Legione straniera in Gibuti. L’arrivo del giovane Sentain incrina ogni equilibrio, scatenando l’invidia e la gelosia di Galoup, che si ossessiona a tal punto da tramare contro di lui, fino a metterne in rischio la vita. Tuttavia, sarà proprio Galoup a pagare le conseguenze delle proprie azioni e della propria brama, ritrovandosi solo in un appartamento anonimo di Marsiglia a rivivere l’eco di un passato lontano. Il suo racconto appare così come una confessione, un’espiazione dei propri peccati e desideri repressi.
Il deserto non è sfondo ma estensione dello stato d’animo. È vuoto, arido, spietato, sublime. La luce scolpisce i corpi in una coreografia di memorie. Denis restituisce attraverso la materia viva di muscoli, fatica, e gesti ripetuti, un desiderio inafferrabile che sfugge. L’immagine racconta ciò che le parole non possono esprimere, così che la composizione diventa un teatro muto di gesti. Tutto è così rarefatto, dissolto e aleggiante, eppure al contempo vivido e corporeo. Beau Travail è un film dall’estetica metafisica e astratta, dove la materia diventa forma pura di estensione dell’interiore.
Potremmo parlare di un amore atipico, non ordinario, se osserviamo l’ossessione di Galoup per Sentain, dietro la quale si nasconde un desiderio carnale taciuto. In realtà, l’omosessualità non viene mai nominata, ma per lo stesso discorso che facevamo prima, possiamo dire che viene suggerita dalle immagini. Claire Denis non pronuncia verdetti né consapevolezze, ma suggerisce un’idea costruita sul non detto, che diventa sempre più densa. Quella di Galoup non è rivalità, ma desiderio di giovinezza, purezza, appartenenza. Un desiderio che non può esistere, per cui va distrutto.
Se Olympia (1938) di Leni Riefenstahl sublimava il corpo in ideologia, Denis lo trasforma in un contenitore di desiderio e repressione. Il corpo è un enigma di rigore, bellezza e tensione, che si esprime senza far rumore. Olympia celebra l’eroe armonioso e trionfante, mentre Beau Travail parla di un desiderio inconfessabile, di una condanna. Lì dove l’amore non è concesso, i corpi si risolvono nell’abbraccio, nello scontro, nella materia che si ritrova. In questo, riscontriamo un dialogo tra Beau Travail e QUEER (2024) di Luca Guadagnino: un amore inespresso, malinconico, trattenuto, annidato nel corpo e nei gesti. Un amore che non redime, ma tormenta.
Il desiderio pulsa, ma non può sfociare, quindi scorre sotto la superficie. È represso ma onnipresente. Un sentimento che è stato marchio distintivo nel regista tedesco Rainer Werner Fassbinder, in particolare in Querelle de Brest (1982) e ne Le lacrime amare di Petra von Kant (1972). L’estetica iper controllata, teatrale, artificiosa, in cui è costruito un mondo erotico che tormenta. I corpi si muovono, trattenuti da regole e strutture di potere, e l’amore si consuma, sfociando nell’ossessione per l’oggetto del desiderio. Lo stile di Fassbinder è denso, saturo, violento e teatrale, mentre Denis sceglie un altro tipo di teatralità, quella sospesa e frammentata, in cui tutto scorre lento.
Beau Travail è un film profondamente astratto, metafisico, ed è al tempo stesso narrativo e sperimentale. Si serve della composizione per raccontare un sentimento, evocandolo. Corpo, gesto e luce, come fosse pittura: la narrazione è affidata alla materia. Nel finale, Galoup, nel suo appartamento a Marsiglia, pronuncia “Servi la buona causa e muori”. Poi vediamo una pistola, e improvvisamente Galoup è nel solito locale del Gibuti che balla furiosamente, liberato sotto le note di The Rhythm of the Night, in una dimensione che, ancora una volta, probabilmente non è reale. Così, l’epitaffio di un uomo che non può vivere tra i civili e che si è privato della vita stessa: soltanto in una dimensione altra si esprime, finalmente vivo.
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