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Bogotá, la recensione: il destino di una vita violenta

Uscito nelle sale del sud Corea il 31 dicembre 2024 e presentato in anteprima al Busan International Film Festival, Bogotá è il nuovo film di Kim Seong-je.

Approdato su Netflix il 4 Febbraio di quest’anno, il lungometraggio, prodotto da Idioplan Watermelon Pictures, si presenta come un nuovo tentativo da parte dell’Asia orientale di uscire fuori dagli schemi, seguendo inevitabilmente la recente scia di rinnovamento portata da Parasite (2019). 

Bogotá: la trama

Bogotá narra le tristi vicende di una famiglia coreana, vittima, come tante altre negli ultimi anni del XX secolo, della crisi finanziaria che colpì il paese, costringendoli ad emigrare, di conseguenza, verso gli States.

Questi però, padre (Kim Jong-soo), madre e il figlio diciannovenne Guk-hee (Song Joong-ki), nel tentativo di ricostruirsi una vita, approdano a Bogotá, in Colombia, dove non avranno più modo di andare via.

La famiglia sarà, per l’appunto, bloccata a vivere nella periferia di San Andresito, dove ogni focolare coreano vive alla giornata, in miseria e in povertà.

Guk-hee e tutta la famiglia viene presa sotto l’ala protettiva del sergente Park Jang-soo (Kwon Hae-hyo), ex compagno d’arme e comandante del padre durante la guerra del Vietnam, che li impiega nelle sue svariate attività di commercio tessile.

Una storia di forte contrabbando, nel quale il giovane Guk-hee si ritrova coinvolto fino al collo, affossando sempre di più il piede nel fango ad ogni suo passo.

Un percorso fatto si di tanto dolore e sangue versato, ma che mette davanti agli occhi del ragazzo la possibilità di raggiungere il massimo potere della società colombiana, fino alla cima più alta.

Una vita di stenti a Bogotá

Bogotá è la simbologia per antonomasia della vita, crudele e imprevedibile, che non lascia grandi possibilità ai molti di risalire il baratro della loro esistenza, se non con qualche piccolo “aiuto”.

Un vortice di intrighi, affari illeciti e riciclaggio di denaro, che vengono spostati, di mano in mano, dai più grandi uomini della società corrotta sud americana, e venduti di conseguenza al migliore offerente.

La sopravvivenza all’interno della città

La pellicola si presenta, quindi, come una matriosca di violenza e malessere, dove il contrabbando coreano alberga nella capitale dell’illegalità colombiana.

Qui il lavoro, il reclutamento, il riciclo di soldi, l’uso preponderante della violenza quale atto di forza per soverchiare l’altro, sono tutti visti come step inevitabili della vita, pezzi di un puzzle montati uno dopo l’altro per continuare a respirare un giorno in più.

Un’esistenza oscura che il protagonista non ha ne desiderato, ne cercato, ma a cui si è, per l’appunto, affidato per sopravvivere.

La triade della violenza

Pertanto, all’interno dei profondi intrecci della città, la corruzione, la negoziazione e il patteggiamento viaggiano a braccetto, seguendo pedissequamente la loro triade piramidale, dove la prima e la terza concezione sono figlie della seconda.

O così sembra fino a quando le cose non iniziano a cambiare.

La scalata di Guk-hee

Guk-hee tenta, infatti, di scavalcare le gerarchie, superare i confini delle proprie zone sociali, dalla prima, sporca e devastata, dove si ritrova scaraventato all’inizio del film, per arrivare a conquistare la zona 6, l’Olimpo degli dei scesi in terra.

Una cerchia fatta di lusso, potere e favori, conquistati però a caro prezzo.

La vetta della montagna pericolosa dove l’uomo evoluto, arguto e feroce, combatte contro l’animale selvaggio e nerboruto, per vedere infine chi la spunta.

La struttura filmica di Bogotá

Il film Bogotá non si struttura tanto come un classico prodotto di mafia e contrabbando sud americano a cui siamo abituati, ma al contrario si esplica come un thriller vivo e dinamico, dalle connotazioni caricaturali tipiche della recitazione coreana.

Questa, esagerata e curiosamente espressiva, si mescola con la paesaggistica colombiana, colorata ma altrettanto degradata, generando un prodotto misto sui generis dalla matrice comune: il commercio illegale.

Il ritmo

Una caratteristica vivace che si ripercuote, oltretutto, anche nel suo ritmo.

Infatti la pellicola, da un primo momento di “formale” lentezza coreana, incrementa il suo andamento con lo scorrere del tempo, prendendo con se la sua personale dinamica di azione.

Le problematiche riscontrate all’interno del film

La trama, però, risulta essere un connubio fin troppo particolareggiato agli occhi dello spettatore, che tende effettivamente a perdersi, lungo il suo continuo evolversi, in un bicchiere d’acqua con passaggi a volte troppo repentini, a discapito dell’intera consecutio temporum della vicenda.

Bogotá appare, pertanto, come la versione beta di un thriller-crime infarcito di scene d’azione, che non si spinge totalmente ne dall’una ne dall’altra parte, paragonandolo paradossalmente ad un raviolo misto di carne e di pesce.

Il tentativo di cambiamento nella città di Bogotá

In Bogotá, a dar modo allo spettatore di ragionare sul concetto base di vulnerabilità sottile che aleggia nell’uomo, nel consueto binomio tra bene e male, o in questo caso di potere e disperazione, c’è la battuta pronunciata dal sergente Park Jang-soo, che dice:

Il cammino verso l’illuminazione passa attraverso la comprensione.

Una contraddizione loquace, detta con grande disprezzo, ma che veicola, nel suo profondo, un nuovo messaggio di vita, di liberazione dai vecchi vincoli bui.

Un discorso dello “zio” Jang-soo che cerca di anticipare, verbalmente e moralmente, il tentativo del protagonista di staccarsi da tutta quella violenza, costruendo qualcosa di buono e legittimo per tutta la sua comunità.

Un pensiero invano, in quanto, di risposta alla sua gentile proposta, tutti lo ripudiano e lo sbeffeggiano, poiché troppo attaccati alle loro abitudini di contrabbando e incatenati in un processo a loro familiare.

Conclusioni

Dunque, alla conclusione di tutta la storia, Bogotá insegna al pubblico che il bel percorso dei soldi facili è, in verità, macchiato di sangue, malato fino al midollo e pieno di serpi infidi, nel quale neanche l’insetto più resistente al mondo, lo scarafaggio, riesce a scamparla.

Eleonora Agostinucci

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