Complotto, alieni e capitalismo. Il sodalizio Lanthimos-Stone tornano con Bugonia, un film postmoderno manierista che si riscatta nel finale.
Evocata da Virgilio nelle Georgiche, la bugonia è una credenza greca, secondo cui le api nascono spontaneamente da carcasse di buoi. La vita nasce dalla morte, rigenerandosi. Remake di Save the Green Planet! (2023) di Jang Joon-hwan, Bugonia (2025) di Yorgos Lanthimos è stato presentato all’82ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Un film postmoderno che vede la coesistenza di generi diversi: sci-fi, dramma, thriller e soprattutto la commedia nera.
Teddy (Jesse Plemons) e Don (Aidan Delbis), sono due giovani ossessionati dai complotti, il primo è apicoltore e lavora come magazziniere per un’importante multinazionale farmaceutica. A capo di questa c’è Michelle Fuller (Emma Stone), CEO di successo. Un giorno, i due, convinti che Michelle sia un’andromediana intenta a tramare contro il pianeta, la rapiscono. Da qui inizia la prigionia della CEO nel sotterraneo di Teddy, in una casa immersa nella periferia statunitense, in tutto il suo degrado.
L’intento e il messaggio di Lanthimos sono chiari e sono molto pessimisti: come esseri viventi, siamo finiti. Ci siamo ammalati e auto-divorati. Abbiamo la malattia e la cura, ed è un circolo vizioso. Come si può iniziare da zero su una base corrotta e degenerata? Per questo, come nella bugonia, la vita può rinascere solo dalla distruzione assoluta. Siamo degli esseri segnati profondamente dalle debolezze, dalle manie e dalla nostra disillusione, perpetuamente e ingenuamente aggrappati a una speranza fievole.
La periferia statunitense è esemplificativa di uno stato d’animo collettivo: il vuoto. Teddy attraversa le strade incorniciate dalla fitta boscaglia o da case degradate: tutto sembra tacere. I quartieri sono abbandonati e il paesaggio urbano è in profonda decadenza, che sembra non esserci traccia di nessun altro esser vivente. Teddy e Don sono due giovani tra tanti, alienati e soli, affogati nelle teorie complottiste in un mondo che è già perso. Don è certamente figura più pura, innocua e fragile, che si rifugia nella speranza di un’ultima apprensione, un’ultima carezza, seppur una promessa irrealistica, eppure più solida del mondo presente.
Immediato è il déjà-vu a Solomon e Tummler di Gummo e ai guardoni di Trash Humpers, entrambi di Harmony Korine. Sebbene la periferia del regista californiano abbia una matrice totalmente diversa, cruda e marcia.
Bugonia è un esempio evidente di post-modernismo dove i generi si incontrano in un universo che, in fin dei conti, è fatto a nostra immagine e somiglianza. Per certi versi pensiamo a Black Mirror, al delirio e alla paranoia della vita, che Lanthimos esprime non solo attraverso la narrazione, ma anche con una fotografia che si distorce, in cui i bordi talvolta perdono connotazione e fisicità. Quello di oggi è un cinema che ci costringe al confronto con il nostro presente, e registi come Lanthimos o anche Ari Aster lo fanno attraverso mondi in cui il reale e l’assurdo coesistono, così nasce il disturbante, dunque la presa di coscienza del mondo attorno a noi.
Il film è lento e si concentra su poche location e cambi di scena. Spesso il ritmo cala e si avverte una sorta di arenamento e ridondanza. Eppure alcune scene sono di tutt’altra pasta e qualità. Basti pensare alla scena iniziale del rapimento in cui coesistono cardiopalma e umorismo nero, o anche alle scene in bianco e nero. Queste, che abbiamo già avuto modo di conoscere nel cinema di Lanthimos, sono visionarie, intriganti e surrealiste, suggerendo una realtà parallela o filtrata dalla soggettiva dei personaggi.
Emblematica la scena in cui la madre malata di Teddy, Sandy, in un ricordo passato fluttua nel cielo mentre il figlio discute con Michelle. Il filo fragile che la ancora a terra sembra rafforzare concetti non esprimibili se non con il fantastico e l’irreale. Davvero degna di nota.
Nota dolente invece per gli andromediani, creature meno curate se pensiamo alle caratterizzazioni de La Favorita e di Povere creature, in cui Lanthimos ha dimostrato una capacità esemplare nella resa di trucco e costumi. Con molta probabilità la scelta è intenzionale, ma comunque non apprezzata.
Purtroppo, a volte si ha una sensazione spiacevole, seppure dispiace ammetterlo: l’eccesso dell’artificio pesa. In Bugonia, come in altre opere recenti di Lanthimos, l’autoreferenzialità, l’uso esasperato dei movimenti di macchina e della musica artificiosa e ridondante gravano sulla narrazione e sul bello di questo film. Questi tratti, che un tempo costituivano il punto di forza del regista, appaiono ora eccessivamente abusati ed estremizzati, rischiando così di offuscare l’unicità dello stile che lo contraddistingue.
Nonostante l’artificio, Lanthimos gioca egregiamente con lo spettatore, manipolandolo e facendogli credere a una verità per poi ribaltare tutto: forse Teddy aveva ragione. Il cambio di registro, insieme al fatto che Teddy alla fine sia dimostrazione della debolezza, dell’ingenuità e dell’imperfezione dell’essere umano, conferma il pessimismo e il nichilismo tipici del regista greco, che con questo film sembra risollevarsi, regalandoci un epilogo sublime.
Come nella leggenda della bugonia, la vita può ricominciare anche da una carcassa, soprattutto quando quel bue si è consapevolmente ammalato e distrutto.
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