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Burning, la recensione: l’amore brucia, ma l’anima di più
Burning esplora il dolore esistenziale dell’essere umano, in una realtà in cui ogni cosa è disconnessa e si consuma lentamente in un vortice di illusioni.
Il regista sudcoreano Lee Chang-dong torna con Burning, un film raffinato quanto enigmatico. Ampiamente riconosciuta dalla critica, l’opera è stata presentata in concorso al 71° Festival di Cannes, diventando il primo film sudcoreano a vincere il Premio FIPRESCI. Inoltre, ha rappresentato la Corea del Sud agli Oscar 2019 nella categoria Miglior film in lingua straniera.
Ispirato a un racconto di Haruki Murakami, nel film niente è come sembra, e un’apparente storia drammatica – e se vogliamo d’amore – si rivela una riflessione ben più profonda. Tutto nel mondo è inafferrabile, e noi in quanto esseri umani siamo ormai disconnessi, prigionieri di una società sempre più avanzata. Ma al tempo stesso, il regista ci sussurra che la realtà stessa è disconnessa da sé.
Lee Chang-dong pone una serie di non detti, di illusioni e di silenzi. Tant’é che mentre noi spettatori cerchiamo delle risposte, ci smarriamo proprio come i personaggi, in una storia in cui ogni cosa sembra avere il proprio flusso.
Burning, la trama
Jong-su (Yoo Ah-in) è un aspirante scrittore che vive nella campagna sudcoreana, vicino al confine con la Corea del Nord. Un giorno incontra Hae-mi (Jeon Jong-seo), sua compagna di scuola ed ex vicina di casa. Tra i due scatta qualcosa, ma Hae-mi parte presto per l’Africa.
Al suo ritorno è in compagnia di Ben (Steven Yeun), un ragazzo ricco e misterioso. Lentamente, la realtà inizierà a prendere pieghe ambigue: buchi nei ricordi del passato, falle nel presente, ogni cosa sembra esistere in dimensioni che non coincidono con la realtà tangibile. Fin quando, un giorno Hae-mi scompare nel nulla.
Personaggi come assenze da colmare
Tutti e tre i personaggi principali di Burning sono alla ricerca di qualcosa, che in un certo senso è comune, seppur si esprima in modi completamente diversi.
Hae-mi non vorrebbe morire, ma sparire come se non fosse mai esistita. Sembra una femme-fatale fragile e disillusa. Forse, lei vorrebbe solo essere vista davvero da qualcuno. Ma anche nei momenti di apparente libertà e spensieratezza, finisce sempre per ricongiungersi con la profonda malinconia, sua unica compagna di vita.
Ben è un narcisista, affascinante, misterioso, ma del tutto svuotato: di vita, di gioia, di interesse. Assorto da una noia compulsiva, trova un brivido nel “bruciare le serre abbandonate, invisibili”. Metafora piuttosto sinistra, che somiglia, seguendo un punto di vista della narrazione, a un’allusione. Infatti, tali serre abbandonate non sembrerebbero nient’altro che giovani donne invisibili agli occhi di tutti e che non vogliono più esistere, proprio come Hae-mi. Dunque, Ben cerca costantemente un senso di eccitazione.
Infine, Jong-su che è alla continua ricerca della verità, di un senso, di oggettività. Tuttavia, tutto sembra seguire narrazioni parallele alla realtà. Ma alla fine, esiste una realtà unica? Oppure ogni realtà non è altro che l’interpretazione e la percezione personale del mondo?
Le realtà invisibili
Ogni elemento mette in discussione la realtà, persino i ricordi di ciò che è stato. Tutto è instabile e ogni personaggio vive disconnesso dall’altro e da ciò che lo circonda. Gatti invisibili che poi appaiono, pozzi che forse non sono mai esistiti e frasi fraintendibili. Burning sembra un sogno lucido in cui riconosciamo le cose, ma poi ognuna ha significati incomprensibili, che fuggono via.
Comprendiamo così come ogni cosa sia un indizio di una versione di come noi interpretiamo le cose. Burning è una realtà in cui autentico e illusione si incontrano, perché anche se noi non riusciamo a vedere qualcosa, gli eventi, in qualche modo, lasceranno tracce dell’esistenza dell’intangibile.
La disconnessione come metafora sociale e politica
La disconnessione non è solo interiore, ma anche collettiva. Jong-su vive una vita modesta in una zona rurale. È un luogo silenzioso che viene spezzato solo da echi della propaganda nordcoreana. D’altro canto, Ben è ricco ma costantemente annoiato, per cui, brucia ciò che ritiene inutile. Poi c’è Hae-mi, anch’ella una ragazza modesta, che non ha nessuno. È una persona invisibile, per cui la sua scomparsa assomiglia davvero a un’esistenza che non c’è mai stata.
Questi contesti diventano metafora di un’intera generazione smarrita, divisa tra ricchezza smoderata e povertà invisibile. Nonostante Hae-mi balli nuda tra l’erba mentre la bandiera sudcoreana danza con il vento, la sua libertà non sarà mai reale, poiché è prigioniera di qualcosa di molto più complesso, qualcosa che è dentro lei e la brucia lentamente. Non c’è nulla di più tragico della disconnessione interiore.
Il cinema di Lee Chang-dong cambia pelle
Con Burning, il regista sudcoreano sembra aver fatto un viaggio lunghissimo. Guardando indietro a film come Oasis, Poetry o Secret Sunshine, dove Chang-dong esplorava l’intimità del dolore in una società tradizionale, qui il tempo sembra essere andato avanti vertiginosamente. La società che ci presenta è sì più avanzata e moderna, ma anche più smarrita. C’è una disconnessione tale tra le persone e le cose, che non sembra nemmeno la realtà che conosciamo, ma un altrove.
La regia è silenziosa ma inquieta, precisa, ipnotica. La fotografia di Hong Kyung-pyo alimenta il senso di sospensione e disconnessione, che possiamo percepire attraverso le atmosfere misteriose, i movimenti di macchina lenti e i chiaroscuri.
Tutto è carico di un simbolismo intenso, anche la musica atipica composta da Mowg, che ci accompagna in una sorta di dimensione “altra”, come se ci fosse un’incrinatura nella realtà. Senza dimenticare la meravigliosa Générique di Miles Davis su cui Hae-mi danza la libertà al tramonto.
Jeon Jong-seo ci incanta con la sua particolarità nell’esprimere l’ambiguità e la profonda malinconia, mentre Yoo Ah-in riesce a rendere vivido l’impenetrabile, l’agitarsi invano per afferrare il mistero dell’esistenza. Infine, Steven Yeun interpreta un Ben impassibile, controllato, un uomo svuotato che trova eccitazione nella distruzione.
Burning, l’enigma della vita
In conclusione, ci agitiamo per scoprire il senso del film, ci poniamo domande in cerca della verità proprio come Jong-su, alla ricerca di un indizio e un senso logico. Ed è proprio questo il cuore di Burning: la vita non offre più certezze e la realtà è disconnessa persino da sé stessa. Cercare la verità oggettiva non porta a nulla, perché ognuno vive la propria interpretazione delle cose. Dunque, la nostra condanna di esseri umani è scalpitare, cercare di trovare un senso, un qualcosa, senza sapere esattamente cosa. È un moto perpetuo che non riusciamo mai a saziare, perché la realtà così com’è non ci basta mai. Quindi, proiettiamo sempre significati e cerchiamo di colmare i vuoti.
Lee Chang-dong riesce a fare un ritratto lucido di ciò che non può essere afferrato: il caos taciturno che portiamo dentro. E forse è proprio questo senso di “inconcluso” che ci trasmette, a rendere Burning un film paradossalmente completo che lascia un’impronta non indifferente.
Come Hae-mi si rifugia nella pantomima e mangia un mandarino inesistente, anche noi alla fine scegliamo di credere nella versione di Jong-su delle cose nonostante non ci sia una prova concreta. Forse perché la realtà immaginata è più sopportabile proprio perché significativa?
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