Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne racconta il cammino silenzioso di una donna mentre il voto collettivo diventa un peso sulle spalle del singolo.
Cosa succede quando la sopravvivenza di una persona dipende dalla scelta degli altri? Un film fortemente attuale quello di Jean-Pierre e Luc Dardenne, che mette in scena una storia quotidiana e precaria trasformandola in un percorso di redenzione e rinascita. Presentato al Festival di Cannes e interpretato da una Marion Cotillard umana e semplice, Due giorni, una notte (2014) è un dramma sociale in cui la crisi individuale si fa specchio di una più ampia e collettiva.
Sandra è un’operaia, vive con il marito e i figli e tenta di rientrare al lavoro dopo una profonda depressione. Ma una notizia inaspettata la costringe ad affrontare una corsa contro il tempo nell’arco di un fine settimana. Accompagnandola passo dopo passo, seguiamo un percorso in cui Sandra dovrà confrontarsi con decisioni che vanno ben oltre la sua posizione lavorativa. La donna, infatti, sarà chiamata a misurarsi con una realtà in cui la sopravvivenza di uno è sacrificio dell’altro. Da una parte un bonus per tutti i dipendenti, dall’altra la riassunzione di Sandra.
I Dardenne raccontano una lotta silenziosa tra poveri, dove nessuno è davvero colpevole ma tutti sono costretti a scelte difficili. Due giorni, una notte, mostra un mondo (più reale che mai) in cui ciò che dovrebbe essere un diritto va elemosinato. Sandra, costantemente messa alla prova e travolta dal senso di inadeguatezza, si imbarca in un cammino di porte da bussare, dove si vede costretta a chiedere ai colleghi di rinunciare al bonus per salvare il proprio posto. Nel frattempo, il capo dell’azienda si sottrae alla responsabilità, lasciando che siano i dipendenti a “uccidersi” a vicenda e decidere del destino di Sandra.
La regia dei Dardenne è quasi invisibile: semplice, essenziale, realistica. E sta proprio in questo realismo mai retorico né esasperato il senso di autenticità. Ogni movimento di macchina segue l’itinerario di Sandra e la osserva, senza mai risultare invadente. Camminate e attese che sono momenti quotidiani, ma carichi di significato, sembrano avvicinarsi a una sorta di cinéma-vérité. Infatti, nulla è spettacolare e proprio per questo il racconto è verosimile, quasi documentaristico. Questa semplicità è anche in Cotillard, immersa in un ruolo fatto di fragilità e ordinarietà.
Due giorni, una notte, indaga la linea sottile che separa interesse individuale e altruismo, mettendo così a nudo le fragilità di un lavoro sempre più precario, in un film che oggi è più attuale che mai. Al centro, si muove il conflitto profondo di Sandra: da una parte l’urgenza di mostrare il proprio valore di essere umano, dall’altra, la paura di fallire, il peso dell’umiliazione e il richiamo del rifugio sicuro. Tuttavia, ogni incontro diventa un tassello di un cammino di trasformazione profonda, un itinerario emotivo fatto anche di piccoli atti di coraggio e umanità.
La regia asciutta dei Dardenne accompagna questo percorso senza mai cedere al melodramma, lasciando spazio a una narrazione essenziale, concreta, ancorata al reale. Non ci sono miracoli, ma un lento processo di consapevolezza: una rinascita conquistata con fatica, porta dopo porta, scelta dopo scelta. E alla fine, quasi non importa se Sandra avrà mantenuto il suo posto lavorativo o meno, perché il centro del film si sposta altrove, sulla possibilità di scegliere di essere liberi e vivi e comprendere il valore della vita.
Tuttavia, rimane l’impressione che manchi qualcosa per rendere questa presa di coscienza intensa. A Sandra rimangono degli sguardi, dei silenzi e una canzone cantata in macchina, che però nel finale non sono sufficienti per rendere questa rinascita “memorabile”; dunque resta un po’ fragile e debole.
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