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Il giardino delle vergini suicide, la recensione
Il giardino delle vergini suicide, il film di debutto di Sofia Coppola, torna in sala 25 anni dopo, restaurato dalla Cineteca di Bologna.
Il giardino delle vergini suicide è tratto dal romanzo d’esordio di Jeffrey Eugenides Le vergini suicide e segna un debutto coi fiocchi per Sofia Coppola, allora ventisettenne. Si tratta di un ritratto generazionale con un’estetica di travolgente malinconia.
È una storia di coming-of-age che però si ferma un attimo prima che quell’inquietudine adolescenziale si sbrogli nell’amore, negli sbagli, nella vita adulta.
Brucia silenziosamente e in un lasso di tempo molto breve la vita di queste 5 ragazze, di età compresa fra i tredici e i diciassette anni, che si tolgono la vita in un quartiere suburbano del Michigan.
Vent’anni dopo, domande e dubbi attanagliano ancora i compagni di scuola delle ragazze, che raccontano la vicenda della famiglia Lisbon e sono l’ “io”, anzi il “noi” narrante di questa storia.
Il giardino delle vergini suicide, il contesto
Le vetrate coperte dalle tende bianche e quella casa asettica rendono impossibile comunicare con le ragazze più del necessario.
Un aspetto che le rende imperscrutabili e assolutamente desiderabili agli occhi dei ragazzi del quartiere.
I quali sembrano gli unici ad accorgersi della situazione di isolamento a cui le sorelle Lisbon sono sottoposte, come se gli unici a saper pensare in questa storia fossero proprio gli adolescenti.
Oltre al tema delle difficoltà della vita adolescenziale, Sofia Coppola mette in scena le conseguenze del perbenismo soffocante nell’America degli anni 70’.
Il convenzionalismo si scontra con la realtà, in una storia di collettiva indifferenza a cui segue una risposta collettiva.
L’erba del vicino interessa solo se è più verde, ma non interessa più se diventa un teatro per l’oppressione. Neanche i genitori provano a spiegarsi l’accaduto.
Il papà è un professore di matematica, la mamma, una casalinga iper cattolica e bigotta che le sorveglia costantemente.
Quest’ultima le segrega in casa e le ritira dalla scuola per infliggere loro una punizione.
In quella villetta a 2 piani aleggia una silenziosa e condivisa rassegnazione al sopruso indotto principalmente dalla signora Lisbon.
Il papà dal canto suo non sa porsi domande al di fuori del campo enciclopedico e accetta così qualsiasi decisione della madre.
Un rigore che si vede anche dai dialoghi della famiglia a cena. Discorsi superficiali e un macchinoso pour parler, orchestrato ad hoc nella sceneggiatura della Coppola.
Ma quando sei adolescente non ti importa molto dei convenevoli, vorresti solo assecondare l’istinto, sessuale e sociale soprattutto.
La malinconia scintillante delle vergini
Sofia Coppola costruisce un impianto visivo che ostacola volutamente il tentativo di entrare nell’intimità di queste 4 ragazze e di conoscerle individualmente.
Il direttore della fotografia Edward Lachman ricrea l’effetto delle pellicole anni ’70, un effetto visivo che con la luce di taglio, aumenta la distanza tra “noi” spettatori e il “noi” famiglia Lisbon.
A favore di questa tesi gioca l’iconografia delle sorelle. Appaiono quasi sempre insieme, vestite e pettinate nello stesso modo.
Sdraiate o sedute una accanto all’altra, rannicchiate sul letto o davanti alla finestra della loro stanza, vivono in simbiosi nell’unico spazio vivibile che viene loro concesso.
Inoltre, anche se è solo Lux a tornare dal ballo della scuola la mattina dopo, in quanto le altre tornano all’orario previsto, tutte le sorelle vengono messe in punizione.
La regista è un’avanguardista dell’immagine e costruisce un’estetica simbolista quasi iperrealista, fatta di malinconia scintillante.
I simboli della fanciullezza sono tutto, espressione della prigionia psicologica e insieme salvifica delle protagoniste, sono l’unico mondo possibile e quello da cui l’età le sta allontanando.
La tassonomia dell’adolescenza è fatta di vestiti bianchi di lino, rouches, slip rosa e coroncine, ma anche di musica rock e sigarette, riviste di viaggi e di moda. Un simbolismo perfettamente congeniale, che non lascia spazio alla retorica.
Il suicidio delle vergini
Lux, interpretata da una giovanissima Kirsten Dunst è l’unica sorella che infrange le regole.
Sale sul tetto dove incontra dei ragazzi diversi ogni notte, è l’unica che fuma e si chiede se quello che fa è indecente o può essere in qualche modo legittimato.
Ma non si dà risposte, perché non esistono punti di riferimento nella realtà. Per questo i punti di riferimento sono da ricercare altrove, in oggetti che diventano simboli, in alberi. L’olmo malato in giardino è da difendere con la vita.
Ci si chiede, le ragazze comprendevano l’insensatezza di quella follia, ma la accettavano perché non potevano fare altrimenti? Oppure, la accettavano perché non comprendevano fino in fondo dov’era la crepa in quel sistema?
Viene da chiederselo, anche perché la fuga non è un’opzione. Forse la fuga è troppo cerebrale.
Fino ad un secondo prima dell’estremo gesto, Lux infatti flirta lucidamente con uno dei ragazzi, quando questi arrivano in soccorso per aiutarle a scappare. Almeno il tempo di una sigaretta.
La regista è magistrale nel trasmettere l’atmosfera in questo caso di angoscia e perplessità.
Una chiave di volta della sua regia che verrà ancora più fuori in Lost in Translation. Qui l’aria è impersonale, confusa ed è funzionale a farci immergere nell’età adolescenziale.
Di fatto a 14 anni non si è maturi abbastanza per capire il motivo del turbamento, ma si è emotivamente così vergini da poterlo subire appieno.