Recensione de Il mio amico robot, film d’animazione muto e commovente di Pablo Berger: un viaggio tra amicizia, solitudine e sogni a New York.
Oggi prendiamo sotto esame un altro film d’animazione, anche questo passato un po’ troppo in sordina nonostante la candidatura all’Oscar come Miglior Film d’Animazione nel 2024. Si parla ancora troppo poco di Robot Dreams — arrivato in Italia con il titolo Il mio amico robot — diretto da Pablo Berger e tratto dalla graphic novel omonima di Sara Varon.
Un film muto, ma pieno di voce. Niente dialoghi, solo suoni e musiche. È lo spettatore a dover immaginare le parole. Una scelta coraggiosa, che dona al film un valore universale, senza tempo, raccontando con delicatezza il significato più profondo dell’amicizia attraverso l’incontro tra un cane e un robot.
L’ambientazione è una Manhattan degli anni ’80, vibrante e malinconica, popolata da animali antropomorfi al posto degli esseri umani. Una trovata visiva che, unita a una cura minuziosa dei dettagli urbanistici e atmosferici, riesce a ricostruire una New York credibile, viva, quasi più reale di un live action.
Il protagonista, Dog, è un cane solitario che sogna un amico. Quando vede uno spot televisivo che pubblicizza un robot in offerta speciale, non ci pensa due volte. Da lì, nasce un legame intenso, indefinibile, sospeso tra amicizia profonda e qualcosa che sfiora il romanticismo. Il film non dà risposte, non etichetta il rapporto tra i due, lasciando libera l’interpretazione dello spettatore.
Dopo giorni passati insieme tra balli, risate e passeggiate nei luoghi più iconici e oscuri della città, Dog decide di portare il suo nuovo amico in spiaggia. Ma il sale e la sabbia compromettono irrimediabilmente i circuiti del robot, che si blocca sulla battigia. Dog, sconvolto, lo lascia lì con la promessa di tornare il giorno dopo.
Ma non sa che con la fine dell’estate, la spiaggia chiude. Il robot resta intrappolato lì, mentre Dog è costretto ad andare avanti con la sua vita. Ha così inizio un periodo fatto di sogni, speranze e silenzi, in cui i due personaggi vivranno separati, ma con il desiderio profondo di ritrovarsi. Un’alternanza continua tra sogno e realtà guida il film verso un finale malinconico, ma autentico e necessario.
Pablo Berger dimostra, come già in Blancanieves, una notevole sensibilità registica. Non si lascia sopraffare dalla libertà che l’animazione concede: opta per inquadrature sobrie ma potentissime, capaci di dire tanto con pochissimo. Il tutto è sostenuto da uno stile visivo vettoriale che, per certi versi, ricorda BoJack Horseman — complice anche la presenza di animali come protagonisti.
Non mancano però alti e bassi: alcune sequenze risultano un po’ troppo lunghe, e ci sono momenti in cui l’animazione sembra perdere slancio. Personalmente, avrei preferito una durata leggermente più contenuta. Ma questi sono dettagli in un film che riesce comunque a lasciare il segno.
Un plauso speciale va alle musiche di Alfonso de Vilallonga, che si fanno carico dell’intera espressività del film. Non essendoci dialoghi, la colonna sonora diventa la voce vera dei personaggi, accompagnando ogni scena con una delicatezza e un’intelligenza raramente viste nel cinema d’animazione.
Il mio amico robot forse non esplode mai del tutto, ma rimane una perla preziosa da riscoprire, capace di commuovere e far riflettere. Un film che parla di amicizia, solitudine e attesa con una sincerità disarmante, come raramente accade nel panorama dell’animazione moderna.
Un’opera che vale la pena vedere, qualunque sia la tua età.
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