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Il primo giorno della mia vita: come rinascere dal dolore
Il primo giorno della mia vita: dal regista di Perfetti sconosciuti e Follemente, un film metafisico sulla rinascita e la consapevolezza.
Scritto e diretto da Paolo Genovese (tratto dal suo omonimo romanzo del 2018), il film è uscito nelle sale nel 2023 con un cast corale d’eccezione, ottenendo addirittura tre candidature ai Nastri d’Argento.
Sempre attento alle dinamiche umane, anche le più contorte, in questo lungometraggio Genovese prova a trattare il tema del suicidio, ricorrendo a stilemi narrativi metafisici (come in The Place del 2017), immaginando di dare una seconda possibilità a coloro che in extrema ratio decidono di porre fine alla propria esistenza.
Il primo giorno della mia vita, la trama
In una notte piovosa, un uomo misterioso (Toni Servillo) carica in macchina tre persone sconosciute: la prima è Emilia (Sara Serraiocco), ex ginnasta paraplegica; poi è il turno di Napoleone (Valerio Mastandrea), un motivatore depresso; seguito da Arianna (Margherita Buy), un agente di polizia che ha perso la figlia sedicenne per un attacco di cuore. Condotti in un albergo apparentemente dismesso, i tre fanno la conoscenza di un ulteriore ospite, Daniele (Gabriele Cristini), un bambino bullizzato. I quattro individui dovranno convivere per una settimana, riflettendo sul gesto che li ha condotti fino a lì: il suicidio. Sospesi tra la vita e la morte, al termine dei sette giorni verrà concessa loro una seconda possibilità.
Analisi del testo filmico
In Il primo giorno della mia vita, Paolo Genovese conferma la sua capacità di addentrarsi nella psicologia dei personaggi e di voler scandagliare anche i meccanismi più inconsci della psiche umana, al limite tra razionalità e follia.
Perché di follia si tratta se parliamo di “suicidio”. O almeno così ci appare. Ma Genovese in questo film va oltre, provando a mostrare con lucidità il punto di vista dell’altro, di colui che sfinito dalla vita, soffocato dal dolore di un’esistenza che non trova verità d’essere, preferisce scegliere l’oblio e il nulla.
E contemporaneamente tenta di fornire una sua visione di vita oltre la vita, avvertendo lo spettatore che nulla è certo e che quell’atto visto come fine ultimo potrebbe dare il via a un’altra vita, né migliore e né peggiore.
Ad accogliere i suicidi non vi è nessun girone dantesco o ulteriore pena da scontare per l’atto estremo, come se la vita vissuta fosse già lo scotto da pagare per i “violenti contro se stessi”.
Anzi, a recuperare le anime perse nel loro dolore vi è un personaggio misterioso, senza nome, chiamato semplicemente “uomo” o a volte “coso”, interpretato da un sempre magistrale Toni Servillo, che con la sua aria placida va loro incontro, ascoltando jazz da una vecchia audiocassetta mentre guida, ospitandoli per una settimana nell’Hotel Columbia (luogo dismesso nella dimensione reale, ma aperto nell’aldilà) e fornendo loro la possibilità di ritornare sui propri passi.
La visione romantica della morte di Genovese, relativa soprattutto a un gesto estremo, a un razionale puro potrebbe apparire fuori luogo, ciò nonostante, risulta ugualmente di conforto.
La sceneggiatura, personaggi e fotografia
La sceneggiatura scritta dal regista insieme a Paolo Costella, Rolando Ravello e Isabella Aguilar risulta in alcuni momenti un po’ superficiale. La profondità di alcuni personaggi è poco approfondita e mancano momenti ricchi di patos.
Vi sono dialoghi che peccano di retorica e a volte sono inverosimili. Un esempio è quello tra i due genitori del bambino, mentre si trovano in ospedale e la reazione del padre (Antonio Gerardi) al gesto del figlio.
L’interpretazione migliore è senza ombra di dubbio quella di Valerio Mastandrea, l’unico personaggio ad essere stato sviluppato a tutto tondo; quella peggiore va a Sara Serraiocco, poco credibile. Mentre Margherita Buy sembra sempre interpretare se stessa.
Nel film fanno la loro comparsa per brevi istanti anche: Vittoria Puccini nello stesso ruolo del personaggio misterioso; Lino Guanciale, nella figura di un passante che si sofferma a dialogare con Sara; e Giorgio Tirabassi, che vediamo all’inizio, il collega segretamente innamorato di Arianna.
La fotografia è eccessivamente scura, nel vano tentativo di dare drammaticità al testo filmico che non convince completamente lo spettatore.
Conclusioni
Il primo giorno della mia vita tratta un tema molto difficile. Provare a descrivere le dinamiche psicologiche riguardo al suicidio è impossibile. Fornire una visione del senso della vita, anche. Paolo Genovese ha voluto provarci ed è già tanto. Purtroppo, però, non è un film completamente riuscito, anche se l’idea di partenza è molto interessante.