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Il tempo che ci vuole, la recensione su Almanacco Cinema

Il tempo che ci vuole, la recensione

L’ultimo film di Francesca Comencini, Il tempo che ci vuole, è un lavoro estremamente intimo e personale nel quale la regista ha messo tanto amore. E si sente.

Nella famiglia di Francesca Comencini si respirano cinema e cultura in ogni angolo: la bella carriera del padre Luigi ha ispirato il cammino di talento e successo delle figlie, Cristina e Francesca (diventate registe), Paola (scenografa) ed Eleonora (direttrice di produzione).

Eppure, in Il tempo che vuole, ultimo film dell’ultimogenita Francesca, questo grande gineceo lascia spazio a lei sola. Scompare dalla scena anche la madre, la principessa Giulia Grifeo di Partanna, a favore di una narrazione intimissima dell’esclusivo rapporto che intercorre tra il maturo padre Luigi e la piccola Francesca, prima bambina poi giovane donna.

Un padre molto speciale

Il protagonista assoluto del film è il padre Luigi Comencini, regista importante del cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, autore di quello splendido sceneggiato su Pinocchio che è entrato nell’immaginario di tanti spettatori e che viene ampiamente celebrato e omaggiato in Il tempo che ci vuole.

Qui lo vediamo nelle vesti di regista, ma anche e soprattutto nelle vesti di padre tenero, duro quando necessario e sempre estremamente presente per sua figlia. Un padre giocoso e un professionista esigente.

Guardando questo film, sebbene ambientato in tutt’altro contesto e tempo, torna alla mente Maestro Chu, il padre silenzioso ma premurosissimo di Mangiare bere uomo donna, e il suo rapporto speciale, che non necessita di troppe parole, instaurato con la figlia Jia-Chien.

Parallelismi tra cinema italiano e cinese a parte, il Luigi Comencini raccontato da sua figlia in questo film è il padre che tutte e tutti noi vorremmo avere, capace di mostrarci come una roccia anche quando sembra mancare la terra sotto i piedi.

Il tempo che ci vuole

 

I riferimenti autobiografici

Questo, come abbiamo anticipato, è un film autobiografico a tutti gli effetti. Come aveva già fatto nel suo lungometraggio d’esordio, Pianoforte (1984) la regista recupera temi legati alla propria autobiografia e li mette in campo in modo onesto e lucido.

Per evitare spoiler, ci limiteremo a dire che la vita della giovane universitaria Francesca non è tutta rose e fiori, e che il padre sarà una figura cruciale nel proseguimento del suo cammino.

Un padre che non si tirerà mai indietro, nemmeno di fronte agli impegni di lavoro sul set. Perché, come dice Luigi in una scena ambientata sul set sgridando il proprio assistente alla regia, “Prima la vita, poi il cinema!”.

Dal mondo dell’infanzia alla post-adolescenza

Se il mondo di Francesca bambina è popolato di set fatati e di scene girate in campagna tra asini e tramonti, il mondo di Francesca cresciuta è molto diverso: nel film questo stacco è evidenziato nettamente, anche dalla splendida fotografia e dalle cromie utilizzate.

Si passa da una luce dorata, da golden hour, a una luce livida, fredda, che mette in evidenza un momento di crisi. Ed è in quel momento che sorge il conflitto tra la regista/protagonista e suo padre: lui la critica perché la ritiene facilmente influenzabile, lei controbatte accusandolo di disprezzare le donne.

La verità sta in qualcosa di profondo e di condiviso che i due si confessano in una scena struggente che è tra le più belle del film. E che poi costituisce il tema di base del film: l‘idea del fallimento. Che lui sintetizza in una sola, folgorante, battuta: “Tentare di nuovo, fallire di nuovo, fallire meglio”.

A fare da trait d’union tra le varie fasi del film è l’illustrazione della mostruosa “balena” di Pinocchio, presente sull’edizione d’epoca che Francesca bambina ama leggere, e dalla quale è terrorizzata. Quella balena dai denti aguzzi sarà l’incarnazione di tutti i suoi incubi e delle sue paure nella vita vera.

L’Italia di fine anni Settanta

Sullo sfondo, testimone e complice insieme, l’Italia del terrorismo: quella della strage di Piazza Fontana e quella del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro. Quest’ultimo, tra l’altro, è stato recentemente interpretato da Fabrizio Gifuni (l’interprete di Luigi Comencini) nel bellissimo Esterno notte di Marco Bellocchio (2022).

Quella di Il tempo che ci vuole è anche l’Italia dei collettivi universitari, dell’impegno politico e dei molti giovani morti per eroina: un’Italia nera ma vitale e ancora capace di ribellarsi all’ordine costituito.

Il cinema che piaceva a Comencini

In un film che racconta anche il regista Luigi Comencini non può mancare il cinema: dalle scene ambientate sul set di Pinocchio all’apparizione di sequenze di film custoditi dalla Cineteca Italiana da lui fondata, alla quale si deve il salvataggio di molti film muti che hanno rischiato di andare perduti per sempre.

Non manca un riferimento a Paisà di Rossellini, film che lui amava molto, e il racconto della sua scoperta del cinema. All’epoca, lui era un bambino da poco emgrato in Francia, animato da un grande desiderio d’evazione., avvenuta con la visione di L’Atlantide di Pabst. Per lui un’occasione preziosa: “Ho capito che col cinema potevo scappare”.

A un certo punto del film Luigi Comencini/Fabrizio Gifuni muove una critica che va a toccare anche il cinema contemporaneo (e lo stesso Il tempo che ci vuole): “Perché cercate sempre di parlare della vostra storia, nei film?“.

È sempre lui a regalarci una bellissima definizione, poi, di che cosa sia il cinema: “È come un bambino che fruga nella spazzatura e trova una bellissima biglia. Il cinema è così: ti mostra quello che trova“.

Il tempo che ci vuole, il cast

Con il suo viso benevolo e la voce calda e carezzevole, chi meglio di Fabrizio Gifuni poteva far tornare in vita Luigi Comencini? La sua è una tenerezza sottile, che si esprime dall’interno e in ogni piccolo sguardo e gesto.

Durante la presentazione del film al Festival del Cinema di Venezia, Gifuni ha dichiarato di essersi documentato guardando il capolavoro-inchiesta di Comencini I bambini e noi, e di aver scoperto nel regista un uomo dotato di una grandissima capacità di ascolto e di una grande empatia. “Lui aveva un ascolto puro e libero, andava a intervistare questi bambini senza nessuna idea di partenza, errore in cui incappano moltissimi registi: avere un’idea pre-costituita e aspettare che qualcuno quello che tu avevi pensato e che è la tesi del film”.

Dopo essere stata portata alla ribalta dall’opera prima di Paola Cortellesi C’è ancora domani, a vestire i panni dell’autrice del film è un’attrice giovane in ascesa: Romana Maggiora Vergano. Dopo una prova internazionale ma non esaltante nella mini serie Those About to Die, Vergano qui mostra il proprio potenziale di attrice spiccatamente drammatica dando prova di grande intensità e coraggio, mostrandosi indifesa di fronte alla macchina da presa. La sua è una di quelle interpretazioni che si meritano una candidatura da Migliore attrice protagonista a qualche festival di cinema.

Vergano è riuscita a maneggiare con estremo rispetto e cura il materiale umano offerto dalla stessa regista e a metterlo in scena con tanta bravura anche grazie all’ottimo rapporto creato con il co-protagonista, con il quale c’è chimica assoluta sullo schermo.

In conclusione

Il tempo che ci vuole è tanti film in uno. È un film sul rapporto tra padri e figlie, sull’incapacità di accettare e accogliere il fallimento, sulla crisi artistica ed esistenziale, sulla crescita, sull’Italia che è stata. Ed è, ovviamente, anche un film sul cinema, quello classico e sognante di Luigi Comencini.

È, assieme, un delicato infuso di puro amore e un velenoso distillato di dolore: non potrà lasciare lo spettatore indifferente né tantomeno estraneo alle vicende e ai personaggi. Ed è un film, per dirla alla romana, proprio de core, un film “della vita” per la sua autrice e un’ottima opera di cinema.

A potenziare una storia vera e potente e due personaggi complessi e ricchi di luci e ombre è anche la fotografia di uno dei migliori cinematographer italiani. Alludiamo a Beppe Bigazzi, già autore delle immagini dei principali film di Paolo Sorrentino e già in passato collaboratore di Comencini (in Le parole di mio padre, Mi piace lavorare, A casa nostra, Lo spazio bianco e Un giorno speciale).

Il tempo che ci vuole è un film delicato, struggente nella sua verità, che racconta una storia particolare e universale al tempo stesso: quella del rapporto d’amore tra una figlia e suo padre, e del viaggio che decisero di intraprendere. Perché per vivere e amare occorre tutto “il tempo che ci vuole”.

Recensione a quattro stelle su Almanacco Cinema

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