Un horror lungimirante che ribalta la struttura classica. In a Violent Nature è molto più di uno slasher: un viaggio immerso nella crudele natura umana.
Scordiamo per un attimo l’enfasi e la struttura classica del genere horror, e prendiamo per mano un killer. Cosa potrebbe accadere? La risposta ce la da Chris Nash con In a Violent Nature (2024), presentato al Sundance Film Festival nella sezione Midnight. Un’opera nuova, diversa e sperimentale in cui la macchina da presa si inoltra nei boschi del Canada, seguendo lentamente la giornata di un serial killer. È in questo contesto naturalistico che l’uomo non è altro che un estraneo, e noi, i privilegiati che possono assaporare, con uno sguardo a tratti voyeuristico.
Un gruppo di ragazzi in campeggio nei boschi dell’Ontario risveglia inconsapevolmente l’anima dannata di Johnny, serial killer responsabile del massacro di White Pine, avvenuto anni prima. Se da quel momento in poi per il gruppo sarà solo l’inizio di una carneficina lenta e dolorosa (ma anche molto grafica e creativa), lo stesso non si direbbe per noi spettatori, costantemente seguaci e complici del “mostro”. Ma dietro al bosco che assiste inerme, si nasconde molto più di un “semplice” horror.
La macchina da presa, come una nostra estensione, si ancora alla camminata meditata e rituale di Johnny, che attraversa come fosse un walking simulator il bosco. Sarebbe scontato dire che i temi centrali di questo film siano il sangue, le uccisioni o che l’intento sia il gore – come ad esempio accade in Terrifier. Infatti, cuore del film è qualcosa di più profondo: le radici innate del male e della terra che lo ha generato.
Già se ci concentriamo sul paesaggio, sia visivo che sonoro, e dunque sullo spazio e sul tempo, comprendiamo immediatamente come questo sia un organismo senziente che alimenta il terrore. Persino la luce del giorno non è affatto consolazione, anzi, tutt’altro. Già altri film hanno mostrato come questa possa essere più spaventosa di quella notturna. Basti pensare a Non aprite quella porta, Midsommar, ma anche ad Angst o a The Blair With Project – e su quest’ultimo ci torneremo più tardi…
Convenzionalmente, è nella notte che i mostri si palesano e che il paranormale prende vita. Ma ora non è più così. È come se il male si fosse irrimediabilmente insinuato nelle pieghe del sole e della nostra quotidianità. Anzi, se vogliamo è proprio questo contrasto che ci da la consapevolezza che il maligno è perfettamente in grado di mimetizzarsi tra noi. D’altronde, l’idea di una presenza onnipresente nell’aria chiara l’avevamo avvertita già egregiamente con Nosferatu di Herzog e, In a Violent Nature, non fa altro che riconfermare questa tesi.
Un po’ come accade nel cinema di Malick, ma anche in The Blair Witch Project, Nash si concentra sul respiro dell’invisibile, sia in senso spirituale che sensoriale. I lunghi piani sequenza, i tempi morti e l’attenzione al paesaggio sonoro ci raccontano quanto ogni luogo non sia solo uno spazio fisico, abitato e passivo, ma che sia un oltre.
Del creato, in particolare, possiamo avvertirne il respiro e l’indole imprevedibile. Difatti, sia la selva di In a Violent Nature, che i boschi di Burkittsville della strega di Blair, sono sempre personaggi ingannevoli. Come una Medea, la natura è madre, memoria e custode che attrae, confonde e fagocita l’uomo, fino a fargli perdere la cognizione del reale. Pertanto, come accade ad Heather nei boschi del Maryland e a Biancaneve in un mondo ignoto, anche una delle vittime di Johnny perde le fattezze della realtà. Kris gira a vuoto, correndo nei meandri di una natura dalla voce spaventosa, che intona lamenti, grida e suoni che sembrano provenire dall’oltretomba.
In effetti, Nash non fa altro che seguire la deriva dell’uomo. Non si serve di alcun jump-scare, perché ciò che spaventa è la nostra impotenza. E allora, forse sarà proprio l’iperrealismo e la mancanza di artificio a spaventarci davvero. E senza alcun dubbio il confronto diretto con la nostra solitudine, quel momento in cui siamo spogliati di tutto.
Seppur “graziati” da Nash e Johnny, probabilmente siamo prigionieri quanto i personaggi di In a Violent Nature. Poiché, sebbene il bosco di White Pine possa sembrare un luogo sconfinato, in realtà, è più uno spazio liminale e paradossalmente chiuso, che aperto. Come nel Kammerspiel, siamo intrappolati nella soggettiva di Johnny e nella sua “stanza”, ossia la sua coscienza espansa – che corrisponde appunto al luogo e ricordo d’infanzia. Pertanto, come accade in uno dei più importanti teatri d’avanguardia tedesca, siamo costretti a un’intimità con i personaggi, ma non con quelli considerati notoriamente “buoni”, bensì con il killer. In questo modo si instaura una relazione atipica, scomoda e quasi attraente.
Tuttavia, in un film come questo, il bene e il male sono concetti molto relativi e sempre messi in discussione. L’epilogo insolito, così come le motivazioni che hanno reso Johnny un’anima dannata, portandolo a compiere un massacro dopo l’altro, ci fanno chiedere: chi è il vero mostro? Un bambino bullizzato e massacrato durante la sua vita terrena, o la società che lo ha rifiutato e vessato?
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