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La región salvaje, le ragioni dell’insoddisfazione
Non si sa da che parte stare ma, nel dubbio, la domanda ricorrente durante la visione di La región salvaje rimane “ma sta succedendo davvero?”.
Fin dalle prime sequenze di La región salvaje non è difficile comprendere perché il film di Amat Escalante sia uno dei film più contestati degli ultimi anni. Presentato al Festival di Venezia nel 2016, riesce ad aggiudicarsi il Leone d’Argento, premio speciale per la regia che, tuttavia, non riesce a placare le controversie legate al film.
Sarebbe impossibile racchiudere la trama di La región salvaje in poche righe, oltre che incredibilmente inutile. Il film non si evolve tanto su vere e proprie coordinate spazio-temporali, che riguardano essenzialmente una casa e un perpetuo, insostenibile presente, quanto sugli snodi introspettivi dei suoi personaggi che poco hanno da dire, ma molto lasciano a intendere.
Alejandra (Ruth Ramos) e Angel (Jesús Meza) sono una giovane coppia sposata, anche se del matrimonio se ne scoprono le tracce solamente tramite la fede indossata da lui e che fa capolino in primo piano mentre ha un rapporto sessuale con una moglie completamente insoddisfatta.
Ed è l’insoddisfazione l’unica chiave con cui è possibile leggere il film, non tanto perché Escalante appiattisca la sua narrazione su un tema sterile, quanto il fatto che per giorni mi sono chiesta quale parola potesse meglio definire lo stato d’animo che permea la pellicola tutta, che potesse fare da collante tra suoi personaggi.
La stessa insoddisfazione che caratterizza la vita del fratello di Alejandra: Fabián (Eden Villavicencio), dichiaratamente omosessuale che intrattiene una relazione segreta con l’omofobo marito della sorella. A gettare un ulteriore ombra sul dramma, che sembra lentamente surriscaldarsi, è l’arrivo di Veronica (Simone Bucio) che, disposta a liberarsi della sua dipendenza sessuale nei confronti di una figura aliena che vive in un capanno sulla montagna, incoraggia Fabián a provare l’esperienza.
Un meteorite ha colpito la terra vicino a dove vive lo scienziato Vega (Oscar Escalante) e sua moglie Marta (Bernarda Trueba), che insieme portano avanti uno studio meticoloso sull’essere alieno che abita il loro capannone.
“Gli animali sono stati i primi ad arrivare” dice il sig. Vega “[lui, l’alieno] riesce ad attivare gli istinti più primitivi” mentre un piano sequenza segue la corsa a perdifiato del cane della coppia fino a una radura su cui si apre il cratere del meteorite, in cui varie specie animali (dalle pecore ai serpenti ai cani) sono catturati nell’atto di accoppiamento.
Non esiste gerarchia nella fossa scavata dal meteorite, non esistono prede né predatori: tutti sono vittime del proprio cieco desiderio sessuale. Veronica stessa si dimostra completamente dipendente dai rapporti sessuali intrattenuti con la creatura aliena e, come qualsiasi altra umana dipendenza, le causerà un lento deterioramento fino alla distruzione del sé. Qualsiasi altro rapporto non riesce a reggere il confronto; nonostante questo generi, in Veronica e negli altri personaggi che si imbattono nei piaceri della creatura, incredibili atti di violenza.
La (ri)scoperta del perturbante
Ogni singolo fotogramma del film di Escalante nasconde delle insidie, dei trigger, dei giochi di potere tra spettatore e regista. Fino a dove siamo disposti a spingerci per vedere? Fino a dove si spingerà lui per farci vedere? L’obiettivo è quello di dare fastidio, provocare senso di ansia, persino disgusto, spesso in maniera completamente gratuita. Ed è in questa gratuità che si gioca la genialità (o no) di Escalante: non è tanto ciò che viene raccontato, quindi, a essere difficile da sostenere, ma quanto noi riusciamo ad assorbire e, infine, a esserne soddisfatti.
Poche volte è capitato di vedere un film tanto disturbante, senza essere mai davvero esplicito. Certo, Possession di Andrzej Zulawski ha fatto scuola (film che in conferenza stampa, durante il Festival di Venezia, il regista non ha esitato a citare). Ed è davvero difficile trovare oggi – che tutto abbiamo visto – qualcosa che richiami quel perturbante di Leonardo Da Vinci che tanto piaceva a Freud. Eppure Escalante ci riesce, prova con il sesso giocando sul sicuro, prova con le ipocrisie morali che anche sono terreno battuto, ma poi sospende tutto, compreso il tempo: soprattutto il tempo.
Non c’è durata per La región salvaje che sembra scorrere sulla curiosità morbosa di chi vuole vedere sempre di più, sempre meglio, le cose peggiori. Chi è la creatura aliena? Ce la farà vedere? Da dove viene? Cosa provoca? Ci farà vedere i rapporti sessuali con gli esseri umani? E gli omicidi? La violenza domestica? Non tutte le domande avranno risposta, ma è anche questa la regola del film. Una chiave, meglio, che rimanda all’insoddisfazione e che è dei personaggi quanto nostra, quella che non potrà mai essere abbastanza appagante.
Tra horror e realismo, il cinema di Amat Escalante
La riflessione più interessante da fare riguarda sempre il cinema, non in senso assoluto né tanto meno generalista, quanto il cinema nel suo svilupparsi e nel suo riflettersi. Il genere horror è da chiunque riconosciuto come uno tra i più eclettici, in quanto si fonda sulla continua riscrittura dei suoi archetipi.
Risulta davvero difficile parlare di genere nel cinema contemporaneo, poiché la parola rimanda a un connettivo ma a compartimenti stagni, un concetto completamente estraneo ai cineasti contemporanei. Il cinema di oggi è fatto di contaminazione, che è una parola che sta iniziando a tediare le masse quanto resilienza, ma che, tuttavia, nasconde la chiave finale con cui leggere Escalante e, nel senso più ampio possibile, il mondo dell’audiovisivo (ma non solo).
Più affascinante diventa lo scontro tra il realismo – poverissimo a mio parere – del regista messicano con l’iper estetica, quasi post apocalittica, con cui intermezza il dramma. Non si sa da che parte stare ma, nel dubbio, la domanda ricorrente durante la visione di La región salvaje rimane “ma sta succedendo davvero?”.