Con La vita è un raccolto, Agnès Varda racconta la nuova società del consumismo, filmando sprazzi e scarti di quotidianità con sguardo poetico e riflessivo
Cineasta e poetessa, Agnès Varda gira la Francia puntando la sua lente lì dove tutto è stato dimenticato e lasciato indietro. Frutta e verdura, oggetti, persone. La vita è un raccolto (Les Glaneurs et la Glaneuse) (2000) nasce proprio dal cambiamento della società. Passaggio che ha colpito in primis la regista, meravigliata dalle possibilità infinite del nuovo mezzo, la camera digitale. Da qui parte un viaggio che esplora la società dei consumi ma anche la dignità dei margini e la meraviglia nel dare una nuova possibilità di vita a un oggetto colmo di memorie. Così, il documentario intreccia arte, umanità e intimità, elevando l’ordinario e ciò che è invisibile agli occhi.
Con il suo stile poetico, Agnès Varda osserva momenti di vita ai margini, partendo da un gesto antico: lo spigolare. Una pratica umile e nobile, necessaria per la sopravvivenza. Varda attraversa i campi e le strade, arrivando sino alle città, in cui ognuno, a modo suo spigola – lo fa persino lei con la sua telecamera, raccogliendo vita altrui. Ogni incontro è un tassello di raccolto e di racconto. Ogni momento riflette sul tempo, la memoria e il ciclo della vita. Tutto si muove, cambia forma, colore. Tutto nasce, vive e muore: i frutti del terreno, oggetti abbandonati, persino i capelli della cineasta divenuti ormai bianchi. Nel suo sguardo ogni scarto e ciascun segno di vita sono degni di essere custoditi.
La spigolatura – una pratica ormai quasi estinta – diventa un gesto di resistenza, nella società dello spreco. Varda dialoga, perfettamente in stile cinéma vérité, con le varie persone che incontra nel suo cammino. Queste recuperano ciò che viene scartato proprio per smascherare un sistema marcio e tossico. Ciò si eleva ad atto politico: quello che viene gettato può ancora nutrire, essere utilizzato, indossato e rinascere in una nuova vita. Accanto alla denuncia sociale emerge una dimensione parallela più intima, ossia la cura per il quotidiano, per un oggetto “inanimato”, con cui però stipuliamo una sorta di legame affettivo che, in un modo o nell’altro, racconta un frammento di vita che definisce chi siamo.
Varda ritrova nella camera digitale una nuova libertà con la quale può esprimere la sua vena creativa. La sua è una surrealtà che risiede nella realtà vera e propria, contaminata sempre dalla sua ironia. Anche dimenticare di spegnere la camera diventa motivo di bellezza: un copriobiettivo sbatte qua e là, come a danzare sul grano. Varda non si sottrae al racconto, mostrando le rughe delle proprie mani come passaggio del tempo. Dunque, il documentario diventa un autoritratto di estrema bellezza, in cui anche ricordi e giochi d’infanzia permangono. Basti pensare alle mani della regista che tentano di intrappolare i camion che incontra in viaggio. Non lascia scampo a niente, spigolando a sua volta ogni angolo del mondo.
Agnès Varda, pioniera della Nouvelle Vague, sperimenta con i suoi occhi da bambina quasi innocenti. La cineasta ci invita a scoprire un mondo soggettivo, parallelo, ricordandoci che possiamo ancora fermarci e vivere, nonostante la velocità della contemporaneità. La vita è un raccolto riscopre la bellezza del mondo lento, riflessivo, attento, dando valore anche ai momenti apparentemente noiosi. Una bellezza che non riusciamo più a comprendere. La spigolatura diventa la metafora di una vita che raccoglie continuamente, accogliendo e restituendo qualcosa di prezioso, così come il cinema di Varda.
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