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Minari, la recensione su Almanacco Cinema

Minari, la recensione: la resilienza come atto d’amore

Minari è la storia di una famiglia che cerca il proprio posto nel mondo. Ma anche quando tutto brucia e sembra impossibile, l’amore è la salvezza più pura.

Presentato al Sundance Film Festival 2020, Minari vince il Gran Premio della Giuria e il Premio del Pubblico. Non sorprende che il film di Lee Isaac Chung abbia conquistato pubblico e critica, narrando quanta tenerezza ci sia nella fragilità e nella resilienza. Il film nasce dall’infanzia del regista, esplorando l’inizio di una nuova vita per una famiglia coreana che si trasferisce in Arkansas, cercando di stare al passo con il sogno americano.

Minari è una testimonianza di come, anche quando tutto sembra perduto, solo l’amore e gli affetti possano salvare. E per quanto possiamo andare lontano, le nostre radici risuoneranno sempre in noi.

Minari, la trama

Negli anni ’80, la famiglia Yi emigra dalla Corea del Sud verso l’Arkansas rurale. Jacob, il padre, sogna di costruire una fattoria, con quell’ambizione di inseguire il sogno americano. Mentre la moglie Monica teme di perdere le proprie radici. Anne e David, i loro figli, prendono il trasferimento in una casa mobile e modesta come una nuova avventura. Ma le difficoltà economiche e l’adattamento a una nuova terra iniziano a manifestarsi, innescando una crisi profonda tra Jacob e Monica. Fin quando arriva Soon-ja, nonna materna, stramba e “moderna”, che diventerà il cuore pulsante della famiglia.

Minari, la recensione su Almanacco Cinema

Il sogno americano e le radici che persistono

Jacob è un uomo ambizioso che vuole costruire con le proprie forze. Egli vuole seminare le proprie radici e far crescere frutta e verdura coreana in quella porzione di terreno che si mostra sempre più ostile. Nonostante le difficoltà, grazie alla sua perseveranza il sogno prende forma. Ma con esso, Jacob si allontana sempre più dalla sua famiglia, accecato dall’egoismo e dall’aspirazione. Questo aspetto, come l’allevamento di pulcini in cui lavorano i due coniugi, fa emergere quanto il sogno americano sia basato in realtà su una produttività tossica, che uccide l’autenticità e la meraviglia della vita.

Nonostante gli sforzi della famiglia di adattarsi alla cultura americana e fare conoscenze, le loro radici si insinuano silenziose nella nuova realtà. Parlano coreano in casa, mangiano piatti tradizionali e seguono i valori e i modi di pensare delle proprie origini. Il loro senso di appartenenza non li abbandona mai, anche se sono lontanissimi dalla loro terra. E così, l’identità che rimane addosso, diventa un modo per non perdersi, per amare, per restare uniti, un modo per vedere il mondo. Rivelandosi come la vera salvezza.

Minari, la recensione su Almanacco Cinema

Il minari e la resilienza

Il minari è una pianta modesta che cresce ovunque. Con l’arrivo della nonna Soon-ja è chiaro che ciò che salva è l’amore incondizionato e la cura verso i propri affetti. Anche quando tutto sembra perso o fragile. Mentre Jacob cerca in tutti i modi di far crescere il raccolto – a volte anche con egoismo, privando la propria famiglia dell’acqua per nutrire le piante – Soon-ja pianta il minari vicino al fiume, insieme al nipote David. Alla fine, il minari è la pianta che, nonostante non appartenga a quella terra, si adatta e cresce rigogliosa grazie all’amore e alla resilienza.

Fa riflettere come inizialmente, il rapporto tra la nonna e il nipote sia difficile da costruire. Eppure, nonostante il carattere dispettoso e scontroso del bambino verso la nonna (e quindi verso una cultura che ancora non conosce davvero), questa continui a dare amore incondizionato al bambino. Infatti, sarà proprio questo a costruire la fiducia necessaria per accettare e amare la nonna così com’è. Indubbiamente è una riflessione che non si ferma ad accogliere singolarmente la nonna, bensì le proprie origini.

Minari, la recensione su Almanacco Cinema

Il cinema dell’arte dell’attesa

La regia di Chung è delicata e accompagna lentamente, attraverso i dettagli e il sussurro. Tutto in Minari evoca anziché esplicitare. Ed è per questo che ogni cosa sembra essere legata da un pensiero che sembra dirci che ogni cosa ha il suo tempo. La semplicità e il saper attendere la crescita di ciò che abbiamo seminato con cura (che sia un raccolto o un rapporto), sono il cuore della narrazione. Il non detto è in grado di suscitare emozioni intense ma silenti. Motivo per cui, quello di Minari è un cinema che parla attraverso i gesti dei personaggi, la composizione visiva e sonora.

Dal cast alla fotografia, fino alla musica, ogni cosa sembra evocare nel profondo. Spicca Youn Yuh-jung, che interpreta una Soon-ja, figura chiave del film, premiata agli Oscar come Miglior attrice non protagonista. La fotografia di Lachlan Milne è custode della bellezza del paesaggio in cui tutto scorre lento, attraversato da una luce calda che restituisce un senso di semplicità e nostalgia. La colonna sonora di Emile Mosseri è forse tra le più identitarie. È profonda, malinconica ed evocativa. Restituisce quella dolcezza che a volte sembra rarefarsi, ma che alla fine, torna più compatta di com’era in origine.

Minari, la recensione su Almanacco Cinema

La distruzione e l’anima dei luoghi

La casa è simbolo per eccellenza di ciò che siamo. È la custode della nostra memoria, il luogo in cui abbiamo riposto ogni parte di noi. La perdita materiale di ciò che abbiamo costruito con tanta cura è un addio al nostro io più profondo. Eppure, a volte, è proprio in questo momento di catarsi estrema che comprendiamo qualcosa di più importante. Ciò che conta davvero è l’amore per, e delle persone che amiamo. Un legame invisibile che è più forte di ogni cosa materiale.

Tuttavia, anche i luoghi finiscono per avere un’anima. Essendo attraversati dal dolore, dalle gioie e dagli avvenimenti dei corpi che li abitano, è come se assorbissero le storie. Per cui, quando questi luoghi vengono distrutti o bruciano è come se svanissero tutti i momenti di cui sono stati custodi silenziosi. Nel cinema questa simbologia è ricorrente, seppur con accezioni diverse.

Minari, la recensione su Almanacco Cinema

In Minari, come in Sacrificio di Andrej Tarkovskij, il fuoco distrugge, ma spiritualmente si riaccende qualcosa di più importante: la rinascita e l’unione. È come se fosse un rito di passaggio, un’offerta simbolica e di purificazione. Mentre, in Burning di Lee Chang-dong, l’incendio ha un riflesso più oscuro poiché non c’è una vera e propria redenzione o rinascita, quanto una disintegrazione totale. Infine, in A Ghost Story di David Lowery, la casa è custode dell’anima e del tempo, anzi, è come se ormai abbia un’anima propria. E nel momento in cui viene distrutta, comprendiamo quanto sia potente tutto ciò che ci lasciamo indietro: seppur qualcosa venga distrutto, nell’aria continua a permanere tutto ciò che è stato. 

In conclusione

Minari è un film che cammina con passo lento sulle attese silenziose e sul tempo necessario per mettere radici. È un racconto intimo e delicato che si affida all’evocare sensazioni più che innescare eventi significativi. E questo è in linea con l’essenza del film. L’estrema sobrietà che a volte sembra troppo impalpabile potrebbe far percepire la mancanza di una catarsi narrativa forte. Ma forse è proprio questo che vuole il film. Poiché, quando questa arriva, non sembra distruttiva, ma quasi silenziosa e risolutiva.

In definitiva, è un film che parla dell’importanza della resilienza e di tutti i legami che sopravvivono solo grazie all’amore incondizionato. Motivo per cui, a fine visione, Minari lascia la sensazione di aver compreso ciò che c’è di più vero: l’affetto silenzioso che esiste anche senza essere ripagato. 

Recensione a tre stelle su Almanacco Cinema