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Polytechnique di Villeneuve, requiem di una strage vera

Denis Villeneuve e l’anatomia in bianco e nero di Polytechnique, in cui ricostruisce con un gelo estremo il massacro del 1989 al Politecnico di Montréal.

Il linguaggio cinematografico si è sempre interrogato sul modo giusto di costruire e narrare storie forti e, come in questo caso, reali. Il 6 dicembre del 1989 all’École Polytechnique de Montréal la vita di quattordici donne fu strappata da un giovane armato. Come si può parlare di misoginia, trauma e memoria collettiva? Ma soprattutto, come rappresentare la banalità del male e ciò che resta? Con Polytechnique (2009), Denis Villeneuve sceglie una strada fredda, scolpita nella neve, in cui non c’è spazio per la catarsi, né per il sensazionalismo.

Polytechnique, la trama

Carnefici, vittime e sopravvissuti. Il destino di giovani studenti si intreccerà per sempre dopo una giornata fredda che cambierà per sempre le loro vite. Un ragazzo armato entra nelle aule e assale sole studentesse, dopo un monologo misogino che sarà dichiarazione d’intenti. Ma cosa succede prima di quell’atto? E cosa rimane dopo, nella vita di chi sopravvive?

La freddezza nelle immagini, come nei gesti

Villeneuve racconta in un bianco e nero che sembra richiamare il pensiero di Picasso (citato nel film attraverso Guernica) e dei maestri della fotografia. Infatti, nel tentativo di imprimere e catturare l’essenza delle cose, il colore risulta superfluo, anzi, d’intralcio, dunque, è solo attraverso la desaturazione della realtà che essa si può riconoscere appieno. Nel caso di Polytechnique, la banalità del male può essere guardata negli occhi solo svuotando la normalità delle sue tinte. Poiché solo così, forse, può essere visto ciò che si nasconde e si confonde, nell’ordinario.

In questo modo il bianco e nero dà quella glacialità necessaria affinché non si cada nella retorica o nell’emozione. Ciò che resta è solo l’indagine della realtà, o di qualcosa che è oltre. La freddezza è ovunque: nelle immagini, nei pensieri e nella giornata nevosa che fa apparire il politecnico come una vera e proprio prigione in balia di una bufera prossima – reale quanto metaforica. Villeneuve ritrae così un mondo congelato, candido, bianco e impassibile agli eventi, in cui il veleno si insinua con facilità, propagandosi velocemente. È un veleno che è odio freddo, insensato e inconcepibile.

Il sangue che scorre, se vogliamo, diventa esemplificazione di un concetto, ossia testimonianza visiva e formale del dolore. E quindi, forse siamo il risultato e lo specchio di ciò che abbiamo intorno e del luogo che abitiamo: riflesso di un mondo ostile e pericoloso.

Un racconto in più prospettive, il lascito di Elephant

Polytechnique è un’opera che si costruisce attraverso l’intersezione di dualità e molteplicità. Sguardi, ruoli, ambienti e temporalità. Tre sono i personaggi principali mediante cui si ricostruisce la giornata invernale fatale. Il carnefice senza nome, Valérie, promessa ingegnera e Jean-François, uno studente che assiste al massacro. Riviviamo, come in Elephant di Gus Van Sant, i momenti significativi di quella giornata visti con gli occhi dei tre personaggi principali. Chi sa già tutto, chi è vittima inconsapevole, e chi testimone impotente. Anche Vincenzo Alfieri con il suo 40 secondi  adotta lo stesso modus operandi: narrare la tragedia a più occhi, più vissuti e più prospettive, per riflettere e comprendere sul male in un mondo che lo accoglie a nutre.

Nel Politecnico di Montréal, gli spazi sono carichi di ordinarietà quanto di tensione, quasi a dare forma all’angoscia che cresce nello spettatore, quando si rende conto dell’inutilità e della facilità con cui il male esplode in una scuola qualunque, in un giorno qualunque, tra esseri umani qualunque.

Con il suo stile chirurgico, sobrio e quasi memoriale, Denis Villeneuve si limita ad osservare la realtà e il suo cinema a testimoniarla. È il regista in primis ad essere impotente di fronte alla storia del suo stesso film. Dunque, comprendiamo come Polytechnique mostri senza pretendere di dare risposte.

E quindi, cosa rimane dopo la tragedia? Cosa rimane nella memoria e nei cuori di chi resta? Il silenzio, l’impossibilità e un bianco che è vuoto incolmabile e inspiegabile senza eguali. Infine, nell’asetticità di Polytechnique, è l’amaro ad attraversare lo schermo fino ad arrivare nello spettatore, e un senso di inspiegabile che si incide dentro.

🎬 Valutazione

Regia
★★★★
Interpretazioni
★★★★
Storia
★★★★
Emozioni
★★★★
🏆 Voto Totale
4
★★★★
Serenella Bozhanaj

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