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Roma Cinema Fest: Hamnet
Il nuovo film di Chloé Zhao è una decostruzione del dolore ed un elogio all’elaborazione di una perdita che incanta e commuove il festival del cinema di Roma.
Il cinema ed il teatro sono da sempre due arti legate tra loro. La prima discende dall’altra e la seconda, col tempo è stata quasi sostituita dall’altra che è diventata il mezzo artistico che piu’ riusciva a comunicare col nuovo mondo. Dietro a entrambe pero’ si cela un artista ed un processo creativo che parte dall’interiorità dello stesso artista, da cio’ che sente di dover esprimere. Dall’altra parte c’è anche uno spettatore che ha la propria interiorità e che deve connetterla a quella dell’artista per comprendere l’opera.
Hamnet, il quinto lungometraggio di Chloé Zhao presentato alla 20ª edizione del Festival del cinema di Roma sintetizza le due arti e decostruisce il dolore. Analizzando il processo di accettazione della perdita, la storia della morte di Hamnet, figlio di William Shakespeare e della moglie Anne Hathaway (Agnes nel film) è l’espediente per creare un dramma esistenziale sulla morte, la maternità e il destino.

La trama
A Stratford nel 1596, Will, interpretato da un generazionale Paul Mescal, insegna latino ai piu’ piccoli di una famiglia della cittadina per risanare il debito del padre. Lì Will vede per la prima volta la figlia adottiva, Agnes, interpretata meravigliosamente da Jessie Buckley. Agnes è una ragazza fuori dagli standard e dalle norme sociali inglesi, gira per il bosco con un falco e si dice che sia figlia di una strega. Inesorabilmente, Will se ne innamora.
I due hanno una figlia e successivamente si sposano. Will riesce a placare una crisi esistenziale viaggiando per Londra dove intanto fonda la sua compagnia di teatro e proprio mentre è fuori, Agnes partorisce due gemelli ma secondo la profezia della madre e cio’ che ha visto nel destino, i figli sarebbero dovuti essere solamente due. Di fatti, a causa della peste, la profezia finisce per avverarsi e Hamnet muore a soli 11 anni. Il dolore per i due è immenso ed entrambi lo laborano in maniera differente. Agnes, molto piu’ assertiva manifesta il dolore costantemente in ogni guardo, in ogni gesto, mentre Will puo’ solo esorcizzarlo attraverso l’arte ed inizia la stesura del suo capolavoro, l’Amleto.

Un padre ed una madre
Uno dei film piu’ commoventi del festival, sotto conferma delle lacrime e dei sospiri di sollievo fatti dalla sala una volta finito il film; ma non si tratta di lacrime dovute ad una trama strappalacrime che gioca su retorica e scene di straziante banalità. Hamnet arriva dritto al cuore e non fa sconti, presentandoci la famiglia Shakespeare partendo dalla genesi, il primo incontro tra i due protagonisti che godono di due delle performance migliori degli ultimi anni di due attori generazionali come Paul Mescal e Jessie Buckley, già nell’olimpo della recitazione moderna.
La regista riesce a riempire di familiarità ed elementi moderni a livello relazionale e sentimentale che ambienta il film in una dimensione piu’ vaga e grigia, come se ci si scordasse di star vedendo un film ambientato a fine ‘500. A proposito di ambientazione, il parallelismo tra il teatro di Shakespeare dove vediamo la trasposizione di Amleto, e il bosco in cui Agnes partorisce la prima figlia sotto la profezia e dove vede il vuoto nero ed incolmabile dentro l’animo dell’amato Will, poeta incantato e tormentato, insaziabile, che riesce a trovare rifugio solo nella scrittura e nel teatro.

Il punto di forza pero’ sta proprio nella normalizzazione dei due personaggi. Will e Agnes possiedono un animo puro ed una sensibilità unica che esprimono in maniera totalmente opposta ma che conciliano in un rapporto emotivo fortissimo che fa entrare lo spettatore in contatto con i protagonisti e col dramma familiare che vivono. Il dramma ed il dolore che vivono diventano anima e corpo del film che sublima queste emozioni portandole all’apice.
Il film diventa così la storia di un padre e di una madre con uno sguardo femminile, quello di una donna, forse piu’ azzeccato per raccontare una storia di insosenibile leggerezza e struggente passione come quella di Hamnet che privilegia giustamente la protagonista sullo schermo.
Decostruzione del dolore
Chloé Zaho dirige il film in maniera impeccabile, senza una sbavatura e con conformità costante. Il film rimane sempre coerente con se stesso e aumenta il ritmo con un climax di tensione e pathos che culmina con la meravigliosa scena finale, un campo-controcampo memorabile e struggente. Hamnet è una vera e propria anatomia del dolore che viene analizzato e decostruito.
Un analisi profonda del processo piu’ difficile che segue la perdita di una persona, l’accettazione. L’accettazione della scomparsa di un caro, ovvero la parte finale di tutto il processo di elaborazione del dolore e del rimpianto. Il rimpianto di Will per non essere stato lì in quel momento e di non avergli potuto dire addio, o il rimpianto di Agnes di non aver rispettato la profezia e di non aver potuto partorire nuovamente nel bosco. Il senso di colpa, la perdita di sé stessi, la sofferenza e la resa d’impotenza di fronte al destino.

Eppure, quell’elaborazione del dolore, quell’accettazione di cio’ che è stato e che non si puo’ cambiare non è fine a sé stesso. Lo strazio e la disperazione diventano sentimenti con i quali si deve inevitabilmente convivere, ma bisogna assimilarli e prendere coscienza di cio’ che è successo, affrontare la perdita per superarla e lo spettro che la regista ci mostra tra i due protagonisti è la chiave di Hamnet e dell’opera ispirata da questi fatti reali, Hamlet.
L’unico modo che ha Will per espellere il dolore è affrontarlo buttandolo giu’ sulla carta e rappresentarlo sul palcoscenico, l’unico modo che ha per dare effettivamente quell’addio che avrebbe voluito dare. Per Agnes invece, l’unico modo che ha per riconsciliarsi col marito e comprendere la sua interiorità è rassegnarsi al destino e rivivere cio’ che è stato attraverso la storia di Amleto e la sua rappresentazione.