Straw – Senza uscita si presenta inizialmente come un thriller urbano teso e claustrofobico, ma si rivela presto un potente dramma sociale.
Diretto da Tyler Perry, interpretato con straordinaria intensità da Taraji P. Henson, Straw e disponibile su Netflix è un film che non lascia indifferenti. La protagonista, Janiyah, è una madre single che lotta quotidianamente per sopravvivere in un sistema che sembra progettato per schiacciarla. In un solo giorno, perde la casa, il lavoro e rischia di perdere anche sua figlia. Tutto ciò che può andare storto va storto, ma non per un’inverosimile sfortuna narrativa: la sequenza degli eventi mostra una catena di cause strutturali che riflettono problemi reali e concreti. Il film, infatti, affonda le radici nella realtà di milioni di persone che vivono ai margini, trascinate da un sistema che non perdona l’errore, che non tende la mano a chi cade, ma che al contrario spinge ancora più a fondo chi è già in difficoltà.
Al centro della storia c’è una donna disperata che tenta di restare lucida per il bene della figlia, Aria. Ma più le ingiustizie si accumulano, più il suo equilibrio emotivo si sgretola. Janiyah non è una criminale, non è una ribelle: è una madre che ama profondamente, ma che viene ignorata, fraintesa e lasciata sola.
Quando decide di entrare in una banca con in mano una pistola, inizia una spirale apparentemente folle, che in realtà è il frutto di una lunga accumulazione di dolore. La rapina non è un gesto di violenza fine a sé stesso, ma l’estremo tentativo di farsi ascoltare, di forzare un mondo sordo a prestare attenzione al suo grido. In quella banca non ci sono solo ostaggi, c’è l’intero peso di una vita vissuta a un passo dal baratro, dove ogni porta chiusa è un nuovo colpo inferto alla dignità.
Il momento più toccante è rappresentato dal monologo che Janiyah rivolge alle persone all’interno della banca, ma idealmente al pubblico. In quelle parole c’è la voce di molte donne che ogni giorno affrontano discriminazioni, pregiudizi, e un senso di colpa instillato dalla società solo per il fatto di essere madri, povere, sole. Perry non cerca facili scorciatoie emotive né compiacimento morale: la macchina da presa resta ferma sul dolore, ci costringe a guardarlo dritto in faccia. E mentre la tensione cresce, il film riesce a intrecciare la denuncia sociale con un crescendo emotivo quasi insostenibile.
Ma il vero colpo al cuore arriva solo alla fine, quando la narrazione si ribalta completamente e lo spettatore è costretto a rimettere in discussione tutto ciò che ha visto. Scopriamo infatti che la figlia di Janiyah era morta da tempo, e che tutta la rapina, le urla, le trattative, la tensione, non era altro che una manifestazione del suo trauma, un delirio costruito per proteggersi da un dolore troppo grande per essere accettato.
Questo colpo di scena finale non è un espediente narrativo gratuito: è la rivelazione straziante di quanto la mente possa spezzarsi sotto il peso della perdita e dell’isolamento. È anche una condanna implicita verso una società che, se avesse offerto ascolto e sostegno prima, forse avrebbe potuto evitare una tragedia.
Il film si chiude lasciando nello spettatore un senso di vuoto, ma anche di rabbia e consapevolezza. Non c’è catarsi, non c’è giustizia, non c’è redenzione. C’è solo una donna che ha amato troppo e che è stata dimenticata da tutti. Straw – Senza uscita non è solo un film, è un’esperienza emotiva che ci mette di fronte alle crepe più profonde del nostro sistema sociale e ci chiede, senza mezzi termini: quante Janiyah devono ancora crollare prima che iniziamo davvero ad ascoltare?
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