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The Legend of Ochi, la recensione su Almanacco Cinema
The Legend of Ochi ci porta in un mondo favoloso in cui sospendere l’incredulità e lasciarsi andare all’emotività visiva.
Il film ha fra i protagonisti Willem Dafoe nei panni di un ingenuo padre bellicista e Helena Zengel in quelli della figlia ribelle e istintiva. Anche se l’attenzione è tutta catturata dal simpatico e dolce animaletto Ochi che è al centro della storia.
The Legend of Ochi è stato presentato al Sundance Film Festival 2025, riscuotendo successo di pubblico e critica. È ora nelle sale italiane distribuito da I Wonder Pictures.
La trama di The Legend of Ochi
La storia è ambientata in un fittizio villaggio che si trova tra le alture dei Carpazi. In un mondo rurale che sembra sospeso nel tempo. Le persone del posto vivono dei frutti della terra. Unici elementi di modernità sono qualche supermercato e alcune automobili vecchio modello.
Protagonista di The Legend of Ochi è l’adolescente Yuri, che vive isolata con il padre Maxim e il fratello adottivo Petro (Finn Wolfhard). La leggenda vuole che i boschi vicini al villaggio siano abitati da pericolose creature di nome Ochi. Queste creature somigliano a delle scimmiette – in particolare alla scimmia dai capelli dorati del Sichuan – .
Maxim, rigorosamente vestito da legionario, guida un battaglione di ragazzini, tra cui Yuri – unica femmina – e Petro, alla caccia degli Ochi. La figlia, però, non è assolutamente convinta delle farneticazioni del suo esaltato padre. Decide, così, di aiutare un cucciolo di Ochi che si è perso e deve tornare dalla sua famiglia nei boschi.
Yuri scappa di casa con in spalla il piccolo Ochi anche perché vuole andare alla ricerca di sua madre (Emily Watson), che sembra averla abbandonata da piccola senza motivo. Ma Maxim con il suo esercito è pronto a salvare la figlia che crede in pericolo.
Una favola in analogico
The Legend of Ochi è il lungometraggio d’esordio di Isaiah Saxon. Il regista decide di realizzare il suo fantastico mondo rinunciando all’utilizzo di IA. Infatti, nel film troviamo la tecnica del matte painting. Ovvero composizioni pittoriche che sorgono da sfondo degli ambienti per le scene, invece dell’utilizzo di immagini prodotte digitalmente.
Anche gli Ochi sono realizzati a mano. Si tratta, infatti, di pupazzi che vengono fatti muovere tramite elementi elettronici. Oppure, gli Ochi adulti sono costumi indossati da attori, come avveniva anche nel cult Il pianeta delle scimmie (1968).
Saxon, quindi, si rifà sicuramente ai film classici per ragazzi degli anni ’80, come E.T. oppure i Gremlins. Infatti, il piccolo di Ochi visivamente ha molti elementi in comune con l’animaletto mogwai, ovvero la versione originaria e buona del rettile gremlin. Allo stesso tempo, i movimenti quasi robotici e lenti degli Ochi li rendono vicini all’extraterrestre di Spielberg e non sicuramente alle versioni in CGI delle creazioni moderne.
Da E.T. viene ripreso anche buona parte dello sviluppo narrativo.
The Legend of Ochi: tra femminismo e anti-specismo
In questo caso abbiamo una protagonista femminile che deve opporsi a tutto quello che è maschile. Dove il maschile assume dei caratteri archetipici e stereotipati e, quindi, coincide con la violenza e la miopia emotiva. Il patriarca Maxim è una figura ridicola che parla per frasi fatte e non comprende nulla della complessità che lo circonda. I ragazzini che gli gravitano intorno lo seguono senza porsi troppe domande. A parte il più grande Petro, che dimostra maggiore empatia per Yuri.
Yuri si ribella al padre e alla legge da lui incarnata come nei più classici film coming of age. La madre, in questo senso, rappresenta l’apertura al mondo e l’emancipazione. Anche se ugualmente si dimostra dura e poco comprensiva dell’emotività della figlia. Insomma, Yuri è chiamata a farcela da sola e a seguire il suo unico istinto.
Gli Ochi rappresentano, invece, l’estraneo, l’Altro da sé che viene respinto a priori senza conoscerlo. È chiaro che Saxon carica il film di una precisa visione politica che, oltre a essere animalista e antispecista, è anche antibellicista. Un film, quindi, che guarda al presente nonostante l’ambientazione fantastica. In questo caso, è l’umana che deve adattarsi al mondo alieno e animale, imparando il linguaggio emotivo e speciale degli Ochi.
In conclusione
The Legend of Ochi richiede sicuramente allo spettatore una sospensione di razionalità e realismo. Perché la storia, oltre a contenere elementi fantastici, è ambientata in un villaggio dove c’è una forte commistione di lingue e culture. Gli elementi realistici sono quindi ridotti al minimo.
Inoltre, i personaggi sono costruiti per essere dei prototipi: il prototipo del padre duro e distaccato, della madre naturista e emotivamente intelligente, della figlia adolescente ribelle e scontrosa. Il maschile pensa solo a conquistare e distruggere, il femminile rimette insieme i pezzi e crea. Tutto questo sicuramente è voluto da Saxon ma fa sì che sia più difficile affezionarsi ai personaggi. Senza menzionare, poi, il personaggio di Petro, intrepretato dalla star Wolfhard, che non viene sviluppato affatto.
Il film è visivamente molto curato e riesce a creare un legame fra umani – noi spettatori – e Ochi, soprattutto grazie alla rinuncia al digitale. Lo sviluppo della storia, però, non sembra completo. Probabilmente una durata maggiore avrebbe permesso di strutturare maggiormente il film e di rendere davvero epica la leggenda degli Ochi.