Trap, la legge dell’assurdo

Può piacere o meno ma M. Night Shyamalan, regista del film Trap, si conferma uno degli autori che meglio sa catturare il contemporaneo e restituirlo indietro, attraverso una spettacolarizzazione tale, da renderlo completamente innaturale, infine vero.

Lady Raven è l’artista scelta dall’FBI per tendere una trappola al famosissimo serial killer chiamato il Macellaio: l’assurdo si palesa già così, nella scelta di utilizzare la figura archetipica (ormai) della popstar e associarla al tipico buonismo al servizio della comunità, addirittura disposta a tendere un’imboscata a un serial killer. L’FBI, Lady Raven e tutto il suo entourage sarebbero ben disposti, quindi, a mettere in serio pericolo la vita di migliaia di fan per un buon senso di servizio civile. Assurdo vero? Eppure funziona, talmente bene, che fin dall’inizio, con queste premesse, siamo disposte a sospendere il giudizio di realtà. Shyamalan ci dice “sarà una maratona, tanto vale che te la godi”. Ed è così che devono essere lette tutte le opere del regista indiano di Philadelphia. 

M. Night Shyamalan è un americano, nel suo essere occidentale si radica tutta un’estetica e una narrazione votata al divertimento: utilizza il paranormale (nel Sesto Senso), le sette (in The Village), i supereroi (nella trilogia Unbreakable, Split e Glass) e, in ultimo, l’apocalisse (in Bussano alla porta). Tutte storie che hanno saputo profondamente analizzare il loro contemporaneo, facendo del proprio tempo semplice buzz per affrontare i deliri profondi che ammorbano e intristiscono Shyamalan e la società tutta. Alfred Hitchcock è il grande maestro a cui si rifà questo autore, capovolgendo i significati e creando situazioni estremamente tensive. Ma un’ultima, importante capacità del regista di Trap rimane una narrazione che si decostruisce, che si decompone su se stessa, lasciando infine solamente allo spettatore (richiamando anche qui il suo maestro) il potere di tirare le fila di ciò che vuole, nel bene e nel male.

Trap, dalla parte dell’assassino

Cooper (Josh Hartnett) è un vigile del fuoco, padre di famiglia e marito amorevole. Premia la figlia Riley (Ariel Donoghue) per la conclusione degli esami scolastici e per aver attraversato un periodo adolescenziale particolarmente turbolento, accompagnandola al concerto della sua pop idol preferita Lady Raven (Saleka, figlia di Shyamalan e regista, al suo debutto dietro la camera, con The Watchers). Cooper scopre molto presto che l’intero concerto è una gigantesca trappola messa in atto dall’FBI per catturarlo, perché lui in realtà è il Macellaio, ovvero uno spietato serial killer famoso per fare a pezzi le sue vittime. Da questo momento in poi si giocherà una vera e propria partita a scacchi tra Cooper e la profiler Josephine Grant (Hayley Mills), capo di tutta la missione che, oltre a somigliare terribilmente a tutto ciò che Cooper sembra aver dimenticato di sé, sembra essere in grado di prevedere tutte le sue mosse. Cooper dovrà cercare di stare avanti a se stesso per poter sfuggire all’FBI e, nel cortocircuito causato dalla possibilità effettiva di poter sfuggire a un piano perfetto, Cooper dovrà dimostrarsi il padre migliore del mondo. Perché, nonostante il mostro che è (in) lui, rimane Riley la cosa che ama di più di sé.

A fare da sfondo una soffocante, lobotomizzata e ridicola società umana e, in fondo, il vero fulcro attorno al quale si spinge Shyamalan in Trap: urlano tutti dai fan ai venditori ambulanti, dimostrazione, ancora una volta, di un’inquietante soffocamento dei riti collettivi. Tutti sono soli e isolati al concerto di Lady Raven, tutti ambiscono a diventare la dreamer girl; colei che sarà scelta per salire con la pop star sul palco e visitare poi il backstage, unica via di fuga rimasta per Cooper. Dove sarà disposto quindi a spingersi per trovarsi fuori dalla trappola e sfuggire a Grant? Infine, sottile (e neanche tanto), l’ultimo accenno di patetica speranza di Shyamalan che trova nelle live di un social network un modo nuovo per salvare delle vite e, quindi, credere nel potere dello spirito della condivisione. Shyamalan rischia grosso con Trap, rischiando più volte di scivolare sui terreni insidiosi del contraddittorio e dello scialbo. Tuttavia è nella sospensione della realtà che, infine, Shyamalan sfodera il suo cliché più potente: non importa quello che guardi, l’importante è sempre e solo quello che capisci.

Trap, storia di un grande autore

Trap non è di certo il migliore dei film realizzati, più volte pecca della presunzione del dato per scontato, più volte si trincera in piani consequenziali che, seppur narrativamente logici, perdono di mordente e quindi risultano sbrigativi e spiccioli. Eppure, Shyamalan è un grande autore perché, nonostante tutta la sua filmografia sia costellata da altissimi e bassissimi, alla fine lascia sempre qualcosa di cui parlare e la sensazione di aver aggiunto un tassello nuovo a una storia mai raccontata, seppur già sentita. Josh Hartnett, in una fisicità molto lontana da quella a cui siamo abituati a vederlo (come in Black Dhalia o in Penny Dreadful), si destreggia bene all’interno di un personaggio che, seppur complesso, trova nella sua performance macchinosa il successo che gli spetta.

L’interpretazione di Josh Hartnett e Saleka, infatti, specie nella seconda parte del film, sono caratterizzate da performance totemiche: primissimi piani, sguardo in macchina, recitazione meccanica. Funziona così nello scambio di chi incarna il bene e il male, il buono e il cattivo, il salvatore e il mostro; Shyamalan diventa geniale nel far apparire questo scambio al limite del fumettistico, dell’ironico, dell’impossibile. Infine, è con la moglie Rachel (Alison Pill) che Cooper ritrova una riappacificazione tra l’uomo e il mostro, tra chi potrebbe essere e chi è costretto a essere, senza specificare le motivazioni (perché di motivazioni Shyamalan non parla mai) della follia tutta umana di Cooper. Poi potremmo raccontare dell’utilizzo magistrale della macchina da presa, del cameo del suo regista, dell’utilizzo difficilissimo della Split Diopter Lens, ma forse non avrebbe tanto senso. Perché il cinema di Shyamalan si delinea nelle sue decostruzioni, nel dilatare le narrazioni anche quando appaiono finite, nei plot twist – sicuramente – ma anche e soprattutto nel profondissimo amore che questo autore prova nell’umanità tutta, anche quella che non capisce.

Benedetta Vicanolo

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