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Una battaglia dopo l’altra: io mi ribello, dunque esisto

Una battaglia dopo l’altra, l’ultima fatica di PTA, è un film profondamente politico, coraggioso, aggressivo e perfettamente calato nella contemporaneità.

Paul Thomas Anderson (Il petroliere, Boogie nights, Vizio di forma, Licorice pizza) firma l’ennesimo film riuscito ma probabilmente questa volta è andato addirittura oltre. In questi giorni sia pubblico che critica si stanno esaltando per l’ultima pellicola di Anderson ma queste reazioni sono veramente giustificate? Ora proveremo a dare una risposta.

Una battaglia dopo l’altra, la trama

Un gruppo di rivoluzionari di estrema sinistra chiamato French 75 compie atti sovversivi ai danni di banche, grossi imprenditori e centri di detenzione per migranti. Quando un membro del gruppo, Perfidia Beverly Hills, sceglie di denunciare la squadra costretta dal suo amante, il capitano Lockjaw, il French 75 si scioglie e i sopravvissuti cambiano identità e si trasferiscono. Anche Bob Ferguson (Leonardo Di Caprio) con la sua bimba appena nata, avuta dalla relazione con Perfidia, è costretto a cambiare vita e fuggire.

Sedici anni dopo la figlia di Bob scompare, il capitano Lockjaw rientra in azione e inizia subito un inseguimento senza fine.

La rivoluzione non è un pranzo di gala

La famosissima frase di Mao Tse Tung utilizzata da Sergio Leone all’inizio di Giù la testa, potrebbe essere perfettamente applicata a questo film. Anderson pende delle posizioni politiche non indifferenti e molte delle quali possono facilmente essere considerate controverse.

Le due tesi di fondo del film sono: 1. Gli Stati Uniti sono una Nazione profondamente razzista, in molti casi addirittura a livelli maniacali, e purtroppo questa condizione non cambierà mai; 2. Se vogliamo veramente cambiare qualcosa nelle nostre società occidentali colme di idee progressiste ma in realtà vecchie, immobili e retrograde, è necessario agire facendo più rumore possibile.

Il filosofo e scrittore francese Albert Camus diceva: “Io mi ribello, dunque esisto“. Solo attraverso la ribellione è possibile affermare sé stessi, esistere, fare in modo che la propria opinione valga qualcosa. Il regista, a proposito di ciò, ci sembra dire che le manifestazioni pacifiche non vengono ascoltate proprio perché pacifiche, ininfluenti, sinonimo di una società che in fondo è ancora disposta a subire ed accettare le condizioni di vita imposte. Solamente ribellandosi in modo rumoroso il potere inizierà ad accorgersi del disappunto della popolazione. Un’idea sicuramente non condivisa da tutti ma certamente vera.

Un film politico di gran peso

I film politici veramente d’impatto sono al giorno d’oggi una rara cosa. Mi vengono in mente Parasite o La sala professori. Una battaglia dopo l’altra arriva dritto al cuore e al cervello dello spettatore come poche altre pellicole. Raramente mi è capitato di assistere a una satira e critica così feroce all’esercito statunitense e al militarismo in generale. Il film di Anderson mette in scena l’esercito come se fosse un ammasso di razzisti decerebrati e profondamente ignoranti, quasi dei poveretti vittime di un lavaggio del cervello che inizia molto più a monte rispetto alle loro stupide convinzioni.

Quando il Paese è in crisi e l’economia al collasso è fondamentale iniziare dalla questione dell’immigrazione. Questa la tesi del capitano Lockjaw nel film, appoggiata anche dal governo. Un pensiero oggettivamente assurdo ma adottato anche da numerosi paesi del mondo non nella pellicola ma nella nostra triste realtà.

Un perfetto esempio di impegno politico del cinema, ideologicamente potente come lo erano le pellicole di Elio Petri e Marco Bellocchio ma messo in scena come faceva John Carpenter: attraverso il film di genere.

La messa in scena di Una battaglia dopo l’altra

Cos’altro aggiungere? I personaggi sono tutti memorabili, in particolare il cattivo interpretato magnificamente dal grande Sean Penn. Gli attori sono uno più bravo dell’altro e la messa in scena è praticamente perfetta. La sceneggiatura è decisamente solida e la regia è funzionale, in alcuni casi estetica ed è perfettamente adatta al tipo di racconto da rappresentare. Menzione speciale per il meraviglioso e mozzafiato inseguimento finale che si ispira chiaramente a quello de Il braccio violento della legge (William Friedkin, 1971), tutto giocato tra oggettive e soggettive delle auto e dei personaggi.

In conclusione? Un film da vedere a ogni costo. Indubbiamente ci troviamo di fronte a grande intrattenimento ma risulta impossibile vederlo senza accendere il cervello. Finalmente una grande pellicola che porta lo spettatore a ragionare anche molti giorni dopo la visione.

Davide Perin

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