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Vermiglio di Maura Delpero racconta i simulacri della guerra
Vermiglio è il paese in cui è ambientato il racconto di Maura Delpero e di cui il film prende l’omonimo nome, eppure vermiglio si riferisce anche al colore, rosso, del sangue mestruale – che non deve essere mostrato – e del melograno, in riferimento alla dolce poesia di Giosué Carducci in riferimento al dolore della morte che affligge gli uomini di tutti i tempi.
Vermiglio è un film difficile da masticare, per la scelta linguistica, per i temi e per il tempo storico della rappresentazione. Maura Delpero omaggia il padre e le sue radici, sviluppando una vera e propria ricerca socio-antropologica dei cittadini che vivono nel villaggio di montagna in Trentino Alto Adige, luogo in cui la storia è ambientata. Siamo quasi alla fine della seconda guerra mondiale e il mondo non è ancora pronto alle travolgenti conseguenze della guerra, figuriamoci un paesino del nord Italia. Nella sospensione temporale di Vermiglio, Cesare (Tommaso Ragno), austero insegnante del paesino, e la sua famiglia delineano un ritratto di vita quotidiana. Incombente, ma mai davvero vista, la guerra, che si palesa solo attraverso i corpi dei suoi reduci, di chi ritorna e di chi diserta. Tra questi ultimi Pietro (Giuseppe De Domenico), un soldato siciliano che, per scampare ai tedeschi, si rifugia nel villaggio trentino, da cui è respinto per essere un disertore e per essere del sud Italia (all’epoca, ancora più di oggi, le differenze culturali si dimostrano prepotenti ed escludenti).
Pietro si innamora di Lucia (Martina Scrinzi), una delle figlie di Cesare, e i due decidono di sposarsi. Al matrimonio fa seguito una gravidanza ma anche la fine della guerra e la possibilità per Pietro di tornare a casa: le conseguenze della guerra diventano, quindi, protagoniste del film. Tuttavia, Vermiglio non parla di questo, o almeno non solo, perché quello che interessa alla sua autrice e rintracciare quei sentimenti subliminali di contrappasso tra un’epoca e un’altra. A ridosso della fine della guerra ci saranno i conti da dover saldare e, infine, tutta una società nuova da dover ricostruire. Vermiglio fa seguito a un altro lungometraggio di Delpero in cui, in modi (e mondi) differenti, si raccontano le aspettative impossibili e le pressioni che ne conseguono e che (co)stringono il femminile.
Vermiglio: anche i soldati che tornano hanno dei segreti
“Anche i soldati che tornano hanno dei segreti” oppure “Gli uomini che tornano sono diventati tutti stupidi” sono tutte citazioni che del film ci fanno capire l’incapacità di comprendere cosa sia stata davvero la guerra e il giudizio derivante dall’incomprensione. Neanche i reduci stessi sanno parlare la guerra, infatti quando Cesare chiede a Pietro di spiegare i suoi sentimenti rispetto a una poesia, il soldato risponde abbozzando parole stentate, senza forma, frustranti per lui e per chi lo ascolta e che pur fanno capire molto più di qualsiasi racconto storico. Quella vissuta da Pietro è una guerra che non sa raccontare perché nessuno aveva (o possiede, in realtà, ancora oggi ) gli strumenti per raccontarla. Come si racconta la guerra? Il dolore è troppo potente affinché delle parole trovino riscontro nei sentimenti, figuriamoci al tramonto del 1944 quando sia l’analfabetismo che un certo divieto machista a raccontare le emozioni erano dilaganti. Ed è questa forse la parte di Vermiglio che strugge di più e Delpero è più brava a raccontare, ovvero l’incapacità dei suoi protagonisti di spiegarsi.
I personaggi di Vermiglio parlano pochissimo, poche parole accennate che raccontano storie complesse. Quella di Lucia, per esempio, giovane donna innamorata che segue fedelmente i dettami della società dell’epoca; oppure Ada (Rachele Potrich), combattuta nei tipici istinti dell’adolescenza a cui la strenua fede cattolica fa resistenza e per cui si punisce ogni giorno mangiando sterco di gallina; in Virginia (Carlotta Gamba), vera outsider del villaggio, dai capelli corti e con la sigaretta sempre in bocca, distrutta dall’assenza del padre e, quindi, del maschile; oppure ancora Adele (Roberta Rovelli), matriarca senza fama né lode, modello del focolare domestico eppure abbandonata nel suo ruolo nonostante i lutti infanti subiti. Figure compromesse, infine, che lottano nel solco che la guerra ha tracciato, d’altro lato figure maschili incrinate nelle intenzioni e nei sistemi di riferimento. Baluginii, quelli di Delpero, di un mondo che ancora non c’è ma che sta arrivando.
Vermiglio e la corsa all’Oscar
Notizia di pochissimi giorni quella che titoleggia Vermiglio come il film italiano selezionato per la corsa dei prossimi Oscar nella categoria di miglior film straniero battendo, tra gli altri, Parthenope di Paolo Sorrentino e generando, per questo, una marea di polemiche. Quella di Delpero e di Sorrentino sono due Italia diverse, agli antipodi che non possono e non vogliono scontrarsi né comunicare. I loro autori sono opposti: al barocco di Sorrentino, Delpero mostra una regia scarna e ridotta all’osso che anche se negli stessi silenzi e tempi lunghissimi (che pur caratterizzano lo stile di Sorrentino) si dimostrano centrali nella narrazione. C’è quindi da chiedersi perché si è preferito mostrare un’Italia diversa, meno contemporanea e – quasi – anaffettiva. Di Parthenope possiamo dire veramente poco visto che è ancora inedito (in uscita nelle sale il prossimo 24 ottobre), se non per quelli che sono riusciti a vederlo all’ultimo Festival di Cannes. Tuttavia, il paragone sembra inutile a priori e privo di ogni vero spunto riflessivo.
A essere interessante, invece, è la necessità di raccontare il presente attraverso il passato perché eviscerando Vermiglio da tutta la poetica che lega Delpero a suo padre e alle sue origini, il film è un semplice – forse mediocre – racconto dell’inizio di un percorso che ha portato fino al presente. La riflessione finale, quindi, può essere solo quanto in là siamo riusciti ad arrivare e quanto di nuovo e di bello siamo riusciti a prendere dal passato. Vermiglio, che vince il Leone d’argento – Gran premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia rimane stupefacente nella sua capacità di catturare il momento esatto di rottura del mondo, dei suoi capisaldi e dei suoi capricci, e di riuscire a farlo attraverso una semplicità disarmante. Allegando al finale del film un substrato di riappacificazione e speranza, seppur orrorifico al pensiero di sentimenti che continuiamo a cercare strenuamente ancora oggi.
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