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Dietro la sceneggiatura: Ugo Pirro

Prosegue il nostro viaggio tra i maestri della sceneggiatura: questa settimana esploriamo l’opera e il pensiero di Ugo Pirro.

Ugo Pirro, pseudonimo di Ugo Mattone, è una delle voci più riconoscibili e coerenti, non solo per la qualità della sua scrittura ma per l’inesorabile tensione morale che attraversa ogni riga dei suoi dialoghi, ogni scelta narrativa, ogni silenzio studiato.

Nato a Salerno nel 1920, cresciuto a Battipaglia e poi trasferitosi a Roma, Pirro visse in prima persona l’esperienza drammatica della guerra e la trasformò, senza compiacimento né retorica, in materia viva per il suo lavoro di romanziere e sceneggiatore. Da giovane ufficiale dell’esercito partecipò alla campagna nei Balcani, per poi conoscere la disillusione, l’orrore, la prigionia. Lì nacque forse quella vocazione all’indagine delle strutture del potere che lo accompagnerà per tutta la vita.

Le radici del dissenso

Ugo Pirro non fu mai uno sceneggiatore “industriale”, eppure partecipò attivamente alla stagione più feconda del cinema italiano. Nei primi anni ’50 collaborò con registi come Carlo Lizzani, per il quale scrisse Achtung! Banditi! (1951) e Il gobbo (1960), due opere in bilico tra neorealismo e dramma storico. Ma la sua cifra si definisce soprattutto nel decennio successivo, quando la società italiana, sospinta dal boom economico e dai primi sussulti politici post-resistenziali, offre al cinema un terreno fertile per interrogarsi su giustizia, potere e alienazione.

Il sodalizio con Elio Petri

Tra tutte le collaborazioni che costellano la carriera di Ugo Pirro, quella con Elio Petri rappresenta senza dubbio il momento di più intensa fusione tra pensiero e immagine. Insieme, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, danno vita a una serie di film che ancora oggi costituiscono un vertice insuperato del cinema politico. È una sinergia rara: Petri porta in regia una visione cinematografica tagliente, quasi chirurgica; Pirro, con la sua scrittura affilata e profondamente morale, costruisce mondi narrativi in cui ogni dettaglio è carico di significato.

A ciascuno il suo (1967), tratto dall’omonimo romanzo di Sciascia, è la prima tappa: un’indagine sui meccanismi del sospetto e dell’omertà in una Sicilia dove il delitto non è mai un caso isolato, ma un affare collettivo. Poi arriva Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), il film che consacra la coppia anche a livello internazionale, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero (ricevendo un anno dopo anche la candidatura come migliore sceneggiatura originale). Il protagonista, un dirigente della polizia che commette un omicidio per dimostrare di essere intoccabile, è una delle incarnazioni più potenti del potere patologico nel cinema moderno.

L’anno successivo, La classe operaia va in paradiso (1971) sposta lo sguardo sul mondo del lavoro industriale: il corpo operaio, frammentato e sfruttato, diventa il campo di battaglia di una coscienza che si risveglia e viene immediatamente repressa. Infine La proprietà non è più un furto (1973) chiude idealmente questa stagione con una riflessione grottesca, quasi allegorica, sulla sacralità del denaro e sull’impossibilità di sfuggire alle logiche del possesso.

Un autore trasversale

La grandezza di Ugo Pirro sta anche nella sua capacità di muoversi tra generi, registi e sensibilità diverse, senza mai perdere la propria voce. Collaborò con Vittorio De Sica, firmando Il giardino dei Finzi-Contini, che gli valse una seconda candidatura all’Oscar. Qui il tono cambia radicalmente: non c’è più l’ironia graffiante dei film di Petri, ma una malinconia trattenuta, che attraversa ogni inquadratura e che la sceneggiatura alimenta con pudore e precisione.

Pirro lavorò anche con Damiano Damiani, dando un apporto decisivo a Il giorno della civetta, tratto da Sciascia. In quel film si avverte forte la sua capacità di tenere insieme indagine psicologica, tensione narrativa e denuncia sociale. E ancora con Antonio Pietrangeli, Gillo Pontecorvo, Giuseppe De Santis: registi diversissimi tra loro, ma tutti in grado di riconoscere in Pirro non un semplice scrittore di dialoghi, ma un vero autore.

La sceneggiatura come atto politico

Pirro non ha mai considerato il mestiere di sceneggiatore come un’attività subordinata al regista. Al contrario, ne rivendicava la centralità nella costruzione dell’opera cinematografica. In un’epoca in cui la figura dell’autore era sinonimo di regista, egli continuava a insistere sull’importanza della scrittura. Non solo per la trama o i dialoghi, ma per l’intera architettura del film, per la sua capacità di dire il mondo.

Nel suo Per scrivere un film – un libro che è al tempo stesso manuale, riflessione teorica e pamphlet politico – Pirro racconta la sceneggiatura come un lavoro artigianale e intellettuale insieme. Non un “servizio” al regista, ma un’opera autonoma, capace di esistere anche prima della regia. Scrivere un film, per lui, significa costruire un punto di vista sul reale, e quindi esporsi, scegliere, prendere posizione.

La scrittura cinematografica, spiegava, non deve “raccontare qualcosa”, ma “rendere visibile qualcosa che riguarda tutti”. In questo senso, ogni sceneggiatura è già politica. Anche quando non sembra.

Il cinema come memoria attiva

Pirro fu anche, e forse soprattutto, un intellettuale che non smise mai di interrogarsi sul ruolo della cultura. In Celluloide, libro pubblicato nel 1983 e poi portato al cinema da Carlo Lizzani nel 1996, racconta il dietro le quinte di Roma città aperta. È una dichiarazione d’amore al cinema come memoria attiva, ma anche una denuncia delle sue fragilità: i compromessi, le resistenze, le censure.

Lontano dai riflettori, Ugo Pirro dedicò gli ultimi anni all’insegnamento e alla riflessione sul mestiere dello sceneggiatore, che considerava spesso sottovalutato o trattato come “artigianato subordinato”. Con la sua consueta ironia, amava ripetere che “il nome dello sceneggiatore sta sempre nei titoli di testa, ma in corpo più piccolo”. Eppure, la sua opera è tutt’altro che marginale.

L’eredità di Ugo Pirro

Ugo Pirro ci lascia in patrimonio una scrittura di grande spessore civile, capace di coniugare rigore narrativo e impegno etico. I suoi film e romanzi parlano di storia, memoria, diritti e coscienza, restituendo un ritratto vivido dell’Italia del Novecento, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana.

Miriam Gallinelli

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