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Il cinema di Ingmar Bergman: Il volto

Per la rubrica settimanale Il cinema di Ingmar Bergman, oggi parliamo de Il volto un film che oscilla tra il gotico, la metafisica e il teatro dell’assurdo.

Ingmar Bergman costruisce con Il volto (1958) una delle sue opere più enigmatiche e disturbanti. Ambientato nella Svezia del 1846, ma con echi che risuonano profondamente nel nostro presente, il film mette in scena un duello sottile tra scienza e illusione, tra potere e disarmo, tra chi pretende di spiegare tutto e chi vive dell’inesplicabile.

Ancora tu, Vogler

Il protagonista è Albert Vogler, illusionista muto e impenetrabile, guida di una compagnia di artisti girovaghi che giunge in una città dominata da figure autoritarie e razionaliste. Chiamato a dimostrare i suoi poteri davanti ai notabili locali – tra cui il medico di Stato Vergerus, incarnazione dello scientismo più arrogante – Vogler si muove come una figura tragica e beffarda. Il suo silenzio è una provocazione, un enigma, ma anche una forma di resistenza.

Il gioco tra realtà e finzione è il cuore pulsante del film. Bergman interroga lo spettatore su cosa sia “vero” e cosa sia “teatro”, su quanto siamo disposti a credere pur di non guardare in faccia il vuoto. In una delle sequenze più celebri, Vogler si finge morto e terrorizza Vergerus durante quella che doveva essere un’autopsia: una scena che ribalta i ruoli, confonde i piani e lascia il medico – simbolo della ragione moderna – umiliato e senza più difese.

Vero o falso

La vittoria di Vogler è amara. Dopo aver smascherato la falsa sicurezza dei suoi persecutori, è lui stesso a implorare denaro e pietà. In quel gesto, apparentemente secondario, Bergman deposita tutta la sua visione disillusa sull’artista: capace di sconvolgere e affascinare, ma mai davvero libero dal bisogno, mai davvero al di sopra della fame e dell’umiliazione. L’illusione trionfa solo per un attimo – poi cede il passo alla sopravvivenza.

Bergman lavora qui come un alchimista dell’immagine: i volti – scolpiti da luci drammatiche, stretti nei primi piani – diventano maschere tragiche o grottesche. La composizione visiva è teatrale, il ritmo incalzante ma rarefatto, le parole contano quanto i silenzi, e i simboli (la lanterna magica, il filtro d’amore, l’occhio nel calamaio) si stratificano senza mai imporsi come allegorie forzate. Il volto non è solo un film sull’arte e sull’illusione, ma un ritratto della società ottocentesca – e per estensione, della nostra.

Vergerus è la scienza senza empatia, Ottilia la donna romantica e idealizzata, Starbeck il potere che controlla. Ma è nel confronto tra questi archetipi e la fragile umanità dei girovaghi che si consuma il vero dramma: quello di un’umanità che cerca disperatamente qualcosa in cui credere, ma trova solo la superficie, il riflesso, l’inganno.

Alla fine, i messaggeri del re arrivano per convocare Vogler a corte. L’arte è stata (forse) riconosciuta, ma a quale prezzo? Forse l’unico trionfo concesso all’artista è quello di essere chiamato ad esibirsi – ancora e ancora – per un potere che non lo capisce, ma che non può farne a meno.

Sofia Fumi

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