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La donna che canta: Il trauma nel cinema – Sotto la superficie

La donna che canta di Denis Villeneuve esplora una memoria dolorosa sepolta dal tempo che scorre, ma che, silenziosamente, si adagia nel presente di chi resta.

Diretto da Denis Villeneuve e tratto dall’opera teatrale di Wajdi Mouawad, La donna che canta (2010) è un film che racconta un trauma radicato che riaffiora silenziosamente. Quando Nawal Marwan muore, i suoi figli gemelli Jeanne e Simon ricevono in eredità due lettere. Una di queste è destinata al padre che credevano morto, l’altra a un fratello mai conosciuto. I due iniziano un viaggio alla scoperta della vera identità della madre. Così si intrecciano così la difficile storia personale della donna e la ferita collettiva di un Paese in guerra.

Il trauma silenzioso

Nella ricerca delle memorie della madre, Jeanne e Simon si imbattono in un passato che è rimasto in silenzio nei luoghi in cui ha vissuto, o che Nawal ha attraversato anche solo per un istante. Il dolore è rimasto lì, sotto le macerie e custodito negli occhi della donna. È un sentimento che emerge a strati e ritorna lentamente in superficie. Come un puzzle che ricompone a mano a mano i suoi pezzi rimossi. È chiaro come quel trauma non appartenga esclusivamente a Nawal, ma a un’intera terra spezzata che non riesce più a parlare dell’indicibile, dunque sceglie il silenzio come tomba.

La donna che canta e il dolore ereditario

Ne La donna che canta, il trauma diventa un’eredità che affonda non solo nelle radici di un Paese intero, ma che è scritta nel sangue dei figli di Nawal. Nel tentativo di comprendere, Jeanne e Simon finiscono per inglobare la vita vissuta dalla madre e farla propria, vivendo sulla pelle un dolore mai raccontato. “Nessuna tomba, nessun nome”, questi sono i voleri di Nawal, scritti nel suo testamento. Soltanto la verità le darà la dignità di essere ricordata. Inizia così il viaggio dei due figli nei luoghi dell’orrore. Un viaggio che rimette insieme i pezzi del corpo e dell’anima mutilati di Nawal nei giorni dell’adolescenza e dell’età adulta. Solo attraversando il dolore della madre, la conosceranno davvero.

Tempo, memoria e identità

In La donna che canta, il tempo non scorre mai lineare. Se ci pensiamo, in un certo senso, nemmeno nella nostra esistenza scorre logicamente. Ci troviamo in un’epoca in cui siamo perpetuamente tormentati dal passato, da ciò che è stato e che ci ha segnato per sempre. Dunque, è come se vivessimo una vita frastagliata, in cui il tempo presente è eternamente intrecciato con i ricordi. La memoria diventa un territorio vivo che porta luce sulla sofferenza, trasformandola in un filo che unisce generazioni differenti. Spesso, come figli, vediamo la figura materna in modo parziale e idealizzato, non conoscendone la reale complessità. Nawal è un enigma complesso, e solo guardandola negli occhi può essere riconosciuta.

La donna che canta, un simbolo di resistenza

Il titolo stesso (tradotto in italiano da Incendies – titolo originale), è un paradosso tragico. La voce è simbolo di resistenza, potere e verità. Ma, al contempo, è anche condanna. Nawal canta per sognare un altrove, oltre le mura claustrofobiche della prigione in cui gli echi delle urla delle altre donne sono onnipresenti. Nawal canta per la salvezza, ma viene punita. Il trauma si incide nella voce, nel corpo, e finisce per essere custodito nel silenzio, che regna anche lì dove tutto freme. Solo la ricostruzione della verità restituirà alla defunta Nawal la sua voce, la sua storia. Nel momento in cui tutto si ricongiunge, il silenzio si riempie di dolore vivido, e con esso arriva l’accettazione. E si torna a respirare.

 

 

Serenella Bozhanaj

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