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La samaritana: Il trauma nel cinema – Sotto la superficie
Con La samaritana, Kim Ki-duk firma una parabola moderna sulla colpa e l’espiazione, dove il corpo diventa il luogo della memoria, in un mondo di solitudine.
La Samaritana è ambientato in una Corea del Sud rarefatta, così come tutti i personaggi di questa storia. Yeo-jin è una ragazza sola, vive con il padre che è presente ma distante. L’unico legame che ha è con la sua amica Jae-young. Un legame viscerale e simbolico, se vogliamo ambiguo. Jae-young si prostituisce e Yeo-jin è la sua protettrice, il suo angelo custode. Ma un giorno, Jae-young muore tragicamente davanti agli occhi di Yeo-jin, che impotente non può fare nulla. Così la sua realtà si spezza completamente. Da quel momento, per la ragazza inizia un percorso di espiazione e sacrificio: nel tentativo di liberarsi dal dolore e dal senso di colpa, si trasforma in una samaritana che tenta di riparare un passato ormai scritto, prostituendosi.
La samaritana, l’offerta come redenzione
Ne La samaritana, l’offerta del corpo diventa l’unico luogo di liberazione. Yeo-jin giace con gli stessi clienti della sua amica, dunque inizia a vivere come lei come per sentirla più vicina in anima e in corpo. Non solo, restituisce loro il denaro, come farebbe una donna devota, come per riscrivere il passato e “purificarlo”. Yeo-jin non elabora il lutto, ma crea un rito simbolico per sopravvivere al dolore e al vuoto. Cerca così di dare un senso, di ricostruire, disfacendo il proprio corpo. E qui si instilla un dubbio, è redenzione o una forma di colpa auto-inflitta?
La samaritana e il trauma muto
Kim Ki-duk costruisce il trauma attraverso una regia trattenuta, insinuandolo in ogni inquadratura. Luoghi vuoti, disabitati, apatici. Il silenzio nell’atmosfera e nelle relazioni dei personaggi. La sofferenza e l’incomunicabilità si propagano nello spazio, diventando quasi stantie nelle inquadrature fisse, che persistono. Ogni personaggio è abitato da un trauma che sopprime dentro sé e implode, un trauma che si esprime nei gesti, nell’assenza di parole e in una sofferenza che accade. Come se ormai ogni parola fosse vana, in un mondo governato dal dolore, in cui nessuno si comprende davvero in fondo.
Kim Ki-duk e realismo magico per raccontare la realtà
La pellicola è cosparsa di elementi di realismo magico che sublimano il trauma. Jae-young muore ridendo, come se sapesse già di uscire di scena. Inoltre, la ragazza ha sempre vissuto la sua vita con leggerezza, come se si alienasse alla realtà poiché incapace di viverla. Mentre più avanti, appare in sogno all’amica Yeo-jin: è sotto la sabbia con degli auricolari. La ragazza viene ritrovata proprio lì, sotto la terra, come se il trauma si trovasse nel ventre materno e crescesse, germogliasse, arrivando persino in sogno a Yeo-jin. E tra le note malinconiche di Gymnopédie No.1 di Erik Satie la ferita trova finalmente voce.
L’incomunicabilità tra padre e figlia
La samaritana è un’opera profondamente complessa, attraversata da una malinconia tenera. Il legame tra Yeo-jin e suo padre è incompleto, sono due generazioni che si osservano senza guardarsi davvero. Tuttavia, quando lui scopre il segreto della figlia e compie un gesto irreparabile, organizza con lei un viaggio fuori città. Sa che quelli saranno gli ultimi momenti insieme, quindi, per la prima volta, il film si apre a un’emozione che scalpita: le insegna a guidare. Un gesto all’apparenza banale è simbolo di cura, intimità, con cui le affida l’autonomia, l’amore e la fiducia. Ciò che non era mai riuscito a darle. Il dolore non finisce, ma trova uno spiraglio di alleviamento.