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Shutter Island

Shutter Island: Il trauma nel cinema – Sotto la superficie

Shutter Island è una prigione interiore, fatta di dolore e senso di colpa. È il modo in cui Martin Scorsese ci mette davanti al peggiore dei nemici: noi stessi.

Maestro del cinema, virtuoso, eterno. Martin Scorsese, nel tempo e forse più di tutti, ha spaziato tra generi e temi completamente diversificati tra loro. Fino ad arrivare al 2010, anno in cui con un film ci mostrò le conseguenze di un trauma atroce, mostrandoci fin dove può spingersi la mente umana pur di attutire un dolore insostenibile: Shutter Island.

Ma il trauma e la violenza sono sempre stati collante e tratto distintivo del regista newyorkese. Ed è con questi due fardelli che i suoi personaggi si esprimono e interagiscono con il mondo. In un climax sempre più in crescendo (basti ricordare il suo The Big Shave).

Con Shutter Island, Scorsese sembra chiederci: cosa siamo disposti a fare pur di cancellare il nostro passato? Il trauma può davvero far sì che la mente costruisca un’altra storia di noi stessi?

Shutter Island, l’isola della mente

Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) è un agente federale recatosi nel remoto ospedale psichiatrico di Ashecliffe, su Shutter Island. Luogo in cui vengono curati i criminali malati di mente. Il caso vede la scomparsa di una paziente, Rachel Solando (Emily Mortimer). Ma le indagini iniziano a farsi via via più complesse e intricate del previsto. Al punto che il mistero e l’ambiguità che aleggiano nell’isola inizieranno a coinvolgere personalmente l’agente Teddy.

Sin da subito la grammatica cinematografica cerca di confonderci, facendoci immedesimare in Teddy. Gli altri personaggi, le luci e il montaggio sembrano volerci far capire che la realtà non è come sembra, infatti, sotto c’è qualcosa che inizialmente non riusciamo ad afferrare. Così la mente dissociata di Teddy inghiottisce anche noi nel suo vortice. Teddy, in realtà Andrew Laeddis, è un paziente dell’ospedale psichiatrico di Ashecliffe, internato a seguito di un crollo dissociativo causato dal più atroce dei dolori.

Shutter Island

La dissociazione come fuga dalla perdita

In Shutter Island, il trauma agisce sotto forma di negazione e conseguente dissociazione. Un meccanismo di difesa che la mente di Andrew ha costruito per proteggerlo dalla perdita. Una catena di eventi irreversibili hanno fatto sì che i suoi ricordi venissero seppelliti e che la realtà venisse riscritta e così la sua identità, in un “gioco” eterno.

Scorsese si serve del thriller investigativo per scavare a fondo nel trauma della perdita. Ne svela lentamente ogni strato, partendo dalla superficie fino ad arrivare al nocciolo di Andrew, che, nudo di ogni vestito, si svela per quello che è: un uomo perso e spezzato. Al tempo stesso, questo gioco di percezioni coinvolge anche noi. Infatti, in questo modo il regista newyorkese ci mette nei panni di Andrew, facendoci credere quanto la realtà narrata sia autentica, per poi smontarcela lentamente. Un vestito dopo l’altro.

La vita è un teatro in maschera

Ogni personaggio dell’isola recita un ruolo per una rappresentazione costruita appositamente per Andrew, in una sorta di “teatro terapeutico”. La mente diventa così sceneggiatrice, regista e spettatrice al tempo stesso, in un racconto che ha il sapore meta-narrativo. Scorsese sembra suggerirci, in modo un po’ pessimistico, quanto tutto ciò che ci circonda si adatti a una narrazione che a volte non corrisponde alla realtà, ma a ciò che ci piace o ci fa comodo credere. In fondo, tutti indossiamo delle maschere per sopravvivere a ciò che ci ha feriti irrimediabilmente. E in questo modo, Shutter Island diventa uno specchio dell’animo umano e del sistema sofisticato con cui la nostra mente riorganizza ogni ricordo.

Quanti di questi sono autentici, e quanti sono un compromesso dolce ma fittizio con il nostro passato? 

Shutter Island, vivere da mostro o morire da uomo perbene?

«Which would be worse – to live as a monster, or to die as a good man?».

Questo è l’ultimo atto di Andrew, un uomo costantemente alla deriva. Shutter Island ci lascia così il dubbio più lancinante, ed è proprio questo il vero plot-twist: l’enigma morale. E qui comprendiamo che non sono tanto l’inconscio e la mente a proteggere Andrew dalla perdita, quanto la sua coscienza e il suo volere. Si tratta di un rifiuto cosciente della realtà placida e del non avere più niente per cui vivere. Il gioco dei ruoli, oltre a creare un’identità nuova, conferisce ad Andrew qualcosa per cui continuare a lottare.

Scorsese, con questo finale, ci pone davanti a una domanda: quanto vale la nobiltà dell’affrontare il proprio dolore e di essere noi stessi, e quanto della nostra autenticità siamo disposti a perdere pur di non vivere nel dolore?

Shutter Island