Tra occupazione, censura e diaspora, il cinema palestinese trasforma la narrazione in un gesto politico e la memoria in una forma di libertà.
Da sempre il cinema svolge molteplici funzioni, dal raccontare storie complesse per intrattenere, all’offrire una prospettiva critica sulla realtà denunciando ingiustizie e disuguaglianze.
Nel cuore di una terra contesa, il cinema palestinese si muove su questa linea, tra memoria e testimonianza, costruendo una narrativa che sfida il silenzio imposto dall’occupazione israeliana.
La macchina da presa, dunque, diviene strumento politico, un atto di resistenza artistica.
La forza del cinema palestinese contemporaneo sta nella sua capacità di unire denuncia e introspezione senza cadere nel didascalico. Registi come Elia Suleiman, Annemarie Jacir, Hany Abu-Assad, Hiam Abbass, Basel Adra e Mohammad Bakri utilizzando linguaggi differenti ‒ dalla satira alla poesia visiva ‒ raccontano la condizione palestinese senza voler imporre il proprio pensiero, ma col desiderio di suscitarlo.
In Divine Intervention (2022) Suleiman mostra l’assurdità quotidiana dell’occupazione attraverso un umorismo rarefatto e sospeso, dove l’assurdo diventa strumento di resistenza.
Jacir (Salt of This Sea, 2008; When I saw You, 2012, Palestine 36, 2025) sceglie la via dell’intimità, raccontando la diaspora, il ritorno e la nostalgia. Il suo è un cinema fatto di dettagli e gesti come atti di memoria, al cui centro vi è quasi sempre una protagonista femminile.
Abu-Assad, due volte candidato all’Oscar con Paradise Now (2005) e Omar (2013) porta il conflitto dentro la coscienza morale dei suoi protagonisti, esplorando la radicalizzazione e il prezzo della libertà, senza mai rinunciare alla dimensione etica.
Il cinema di Hiam Abbass dalla forte componenete emotiva e psicologica, cerca di portare lo spettatore a riflessioni profonde come in Insiriated (2017), in cui la protagonista è intrappolata in un appartamento mentre fuori imperversa una guerra sanguinosa.
Nel 2025, No Other land ha vinto l’Oscar come Miglior Documentario. Si tratta di un opera realizzata da un collettivo israelo-palestinese composto da Basel Adra, Yuval Abrahan, Rachel Szor e Hamdan Ballal, che ha lavorato sul progetto tra il 2019 e il 2023.
Il film documenta la distruzione della comunità palestinese di Masafer Yatta, nella Cisgiordania occupata, da parte dell’esercito israeliano, con l’intento di trasformare l’area in un poligono di tiro.
No Other Land mostra come l’attivismo, la denuncia e la convivenza possano sovrapporsi in uno stesso progetto artistico. Il documentario pone attenzione anche sulla relazione tra gli autori come metafora della possibilità di dialogo, convivenza e critica condivisa.
Nella storia del cinema palestinese, Mohammed Bakri occupa un posto speciale. Attore, regista e attivista, Bakri ha attraversato il cinema israeliano e quello palestinese con la stessa urgenza politica. La sua carriera incarna la contraddizione di chi vive sospeso tra due identità, costretto a portare in scena e sullo schermo la tensione di un’appartenenza negata.
Nel 2024 Bakri ha diretto Jenin, Jenin, documentario girato subito dopo l’assedio al campo profughi di Jenin da parte dell’esercito israeliano. Il film, accusato di parzialità e più volte censurato in Israele, è diventato un simbolo della difficoltà di raccontare la verità in una società che teme la testimonianza diretta.
Bakri senza mai arrendersi ha continuato a difendere la libertà d’espressione e il diritto dei palestinesi di narrare la propria storia, subendo processi, intimidazioni, ma anche ricevendo riconoscimenti internazionali per il coraggio e la coerenza della sua opera.
Dalle immagini sospese di Suleiman, agli sguardi silenziosi di Jacir, dalla determinazione di Bakri al coraggio del collettivo di No Other Land, la Palestina continua a raccontarsi.
Il cinema, in questo contesto, non è solo un’arte: è un linguaggio di sopravvivenza, un archivio di memoria viva, un gesto che, nella fragilità del reale, continua ostinatamente a cercare la verità.
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