Time di Kim Ki-duk e la condanna di ogni essere vivente: il tempo. Un’opera che viaggia tra l’assurdo, amori impossibili e un destino inevitabile.
Kim Ki-duk, regista sudcoreano scomparso nel 2020, ha fatto delle realtà d’intermezzo un leitmotiv. Questa è la sua cifra stilistica riconoscibile: personaggi intrappolati in realtà sospese tra il quotidiano e l’assurdo. Il mondo appare così contaminato dall’emotività di chi lo abita e questa sembra essere suggerita ed espressa attraverso simbologie e coincidenze. Time (2006) è un’opera che narra la sofferenza dell’essere umano verso l’ineluttabilità del tempo, una resistenza impossibile. Tuttavia, per l’opera stessa il tempo sembra non essere mai passato: Time racconta una ferita collettiva che mai avrà rimedio, nonché una società in cui la lotta con la propria identità è un punto fermo.
Seh-hee e Ji-woo stanno insieme da due anni. Lei inizia ad ammalarsi di una sofferenza a cui non c’è rimedio: il passare del tempo. Ossessionata da questo, la sua gelosia diventa presto una patologia che frantuma velocemente la relazione. Se-hee è convinta che Ji-woo è pronto a tradirla, stufo del suo aspetto. Dunque, nonostante la sua bellezza, decide di cambiare i connotati e sottoporsi ad una ricostruzione integrale del suo volto. Così, un giorno sparisce improvvisamente dalla vita di Ji-woo. Sei mesi dopo, il ragazzo incontrerà See-hee, con lei riscopre l’amore, ignaro della vera identità della ragazza.
Kim Ki-duk sonda quello che è un vero e proprio fenomeno del Paese: la chirurgia estetica. La chirurgia è diventata una colonna portante della cultura. Il raggiungimento di modelli irraggiungibili di perfezione, cambiamento e resistenza al tempo sono simboli di una società sofferente dello scorrere veloce del tempo e della vita. Un fenomeno incontrollabile e normalizzato che spezza l’identità e l’unicità di ogni individuo, rendendolo merce pronta allo scambio e alla sostituibilità. La paura ossessiva di Seh-hee rispecchia una collettività che non accetta l’invecchiamento e il naturale percorso delle cose.
Il cambiamento di Seh-hee non snoda nessun tormento, anzi, lo stringe ancora di più, fino a renderlo insopportabile. Il volto che non c’è più ha rotto qualcosa per sempre. La nostalgia e l’incapacità di riconoscersi rompono la memoria del sentimento passato, rendendo impossibile alla ragazza comprendere davvero la sua natura. Il ricordo del passato e il desiderio del futuro si spezzano nello stesso tempo, lasciando Seh-hee in un limbo che si esprime con il dramma: l’impossibilità di riconoscersi nel passato, nel presente e nel futuro.
Siamo noi ad attraversare il tempo o viceversa? Probabilmente non c’è risposta al quesito, forse perché qualsiasi essa sia, il risultato non cambia. Se pensiamo a Time, ad esempio, è chiaro come sia il tempo a nutrirsi della nostra esistenza. La natura nasce, vive e muore. Tuttavia, non tutto si perde irrimediabilmente per sempre, ma assume una nuova forma. Anche noi, da esseri mortali non moriamo mai del tutto, ma ci trasformiamo in materia organica. E l’anima, sopravvive?
Il nostro esistere sul mondo è già di per sé una contaminazione. Ogni volta che incontriamo qualcuno o percorriamo uno spazio nuovo, lasciamo qualcosa di noi. È uno scambio continuo, la nostra esperienza entra in contatto con il mondo esterno, e così il nostro vissuto si fonde con quello di qualcun altro. E forse è questo ciò che rimane davvero di noi: l’invisibile. Ciò che non è quantificabile né afferrabile. E Time è proprio questo che racconta, non importa quanto cerchiamo di rimanere ancorati al razionale e al tangibile, perché questo non sarà mai controllabile.
Kim Ki-duk costruisce uno spazio della mente, che è metaforico e metafisico. È un paesaggio di simboli che parla di memoria, identità e perdita. Il regista è solito creare questi spazi di confessione, coscienza e resa dei protagonisti. In questo caso, l’isola delle statue è senza dubbio lo specchio del non-luogo mitologico, un intermezzo di riflessione. Le statue sono attraversate dall’acqua, talvolta immerse completamente. Poi, ritornano a galla. Tuttavia, rimangono inermi in quello spazio silenzioso. Dunque, queste incarnano l’idea stessa di durata: resistono al tempo, immobili e restando inalterate, mentre tutto attorno cambia. È in quel luogo ambiguo che i protagonisti sono esistiti e si sono incontrati, impressi nelle fotografie. Ed è solo lì che possono scontrarsi con le proprie metamorfosi.
L’epilogo si consuma inevitabilmente in una tragedia. Cambiare corpo e identità non salva l’amore o l’anima, anzi, accelera il decorso delle cose. Time oscilla così tra melodramma e ironia, ci sono crudeltà e moralità sottili. Nulla possiamo contro il tempo e ogni tentativo di vincerlo è un fallimento amaro preannunciato. Dunque, cosa resta? Con Time, Kim Ki-duk ci lascia sospesi in numerose domande. L’amore può vincere e andare oltre la metamorfosi e il cambiamento, oppure è solo un altro tentativo di illusione?
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