A due settimane dall’uscita del suo lungometraggio di esordio, abbiamo intervistato Christian Filippi, giovane regista romano: ecco cosa ci ha raccontato.
Classe 1992, Christian Filippi si può definire a tutti gli effetti un secchione: uno che ha studiato tanto e si è messo tanto alla prova sul campo per fare quello che fa, vale a dire il regista.
Ragazzo semplice e alla mano ci ha raccontato cosa significa essere, al giorno d’oggi, un giovane che prova a farsi strada nel panorama cinematografico, con un approccio molto pratico: raccontare solo ciò che si conosce di prima mano e con cui si sta a contatto tutti i giorni.
Prostitute, maestri di scuola, ragazzi cresciuti in una casa famiglia: tutti i personaggi che Christian Filippi racconta nei suoi film lui li ha conosciuti e scrutati da vicino.
Christian, tu hai esordito con due cortometraggi: è proprio da lì che vorrei partire. I tuoi primi corti parlano uno di una prostituta (Sidewalk), l’altro di un timido maestro di scuola che fa amicizia con una badante (Il nido). Cos’è che ti ha spinto a raccontare proprio queste storie? Raccontaci la genesi di questi lavori.
Christian Filippi: “Sidewalk (Marciapiede) era proprio il primo corto che facevo da solo, senza scuola di cinema. Abito qui vicino (l’intervista si è svolta al Centro Commerciale Casilino di Roma, ndr) e mi capitava spesso di fare via Palmiro Togliatti: una via in cui c’è tantissima prostituzione, purtroppo. Ero rimasto colpito da questa signora un po’ attempata che vedevo sempre lì da mesi – facevo ogni sera quella strada per tornare a casa dal lavoro – e ho iniziato a chiedermi: “Come fa questa a tirare avanti?”. Lei mi ha aperto un mondo, mi ha presentato anche altre colleghe e mi ha raccontato tutta la sua storia”.
Ho cercato di concentrare quel corto proprio nei giorni in cui, rischiando di perdere tutto, però è stato un lavoro, che ho fatto da giovanissimo – avevo 22, 23 anni – ed è stato il primo cortometraggio che poi mi ha portato un po’ a girare per i festival, a conoscere persone. Ho presentato poi questo corto al produttore con cui ho fatto il secondo, Il nido, e con cui ho fatto anche l’esordio a lungometraggio, che è Leonardo Baraldi. Anche lì con, Il nido, insieme allo sceneggiatore di quel cortometraggio, Lorenzo Tomassini, abbiamo fatto una sorta di documentazione: io ero vicino di casa di questo maestro di scuola elementare che viveva con la madre. Io mi ricordavo che insegnava anche nella mia scuola quando ero bambino: era un tipo molto aperto, espansivo, però poi aveva questo rapporto con la madre molto timido e mi piaceva questa amicizia che aveva con quest’altra vicina di casa, che lavorava per un anziano lì del palazzo. Insomma, li ho osservati. Poi mi sono fatto qualche chiacchiera.
Abbiamo scritto questa storia che poi era una storia sulla timidezza. Questi due corti mi hanno portato un po’ a fare le prime esperienze nei festival, a conoscere di più il settore, a farmi conoscere, e poi ne ho fatto anche un altro – nel 2020 proprio l’anno del COVID – che era Il custode e il fantasma: la storia di questo custode di cimitero, al primo giorno di lavoro, che viene messo in guardia dal precedente custode in pensione sul fatto che ci siano fantasmi dentro il cimitero. Quello era un corto che avevo fatto insomma cercando di raccontare quelle che erano le problematiche che si sono susseguite al Decreto Sicurezza del 2018, quindi con l’abolizione di alcune strutture per i richiedenti asilo. Molti andavano a dormire proprio dentro il Verano, dentro ai loculi del Verano, perché quel periodo avevano chiuso il Baobab (centro romano di accoglienza migranti, ndr), che era proprio adiacente al cimitero.
Quindi anche lì ho cercato di sempre di documentarmi prima di scrivere una storia, mi piace sempre conoscere a fondo le le cose prima di raccontarle in qualche modo, ci perdo sempre un po’ di tempo all’inizio”.
Quindi tu racconti quello che conosci, quello con cui entri in contatto. Mi pare di capire che tu non sia neanche così indifferente alle tematiche sociali: in Il mio compleanno c’è il discorso delle case famiglia, ad esempio. Quali sono gli aspetti della natura umana che ti interessa raccontare? Quali sono quelle storie che ti ti colpiscono?
Christian Filippi: “Una delle cose che mi che mi fanno subito mettere in moto un meccanismo è la solitudine, ie soprattutto della mancanza di accesso poi ai rapporti umani quando si ha qualche difficoltà. Quindi sia a livello di di relazioni, ma poi anche a livello di istituzioni, come per esempio sia l’ultimo corto che il mio compleanno. Quella è una cosa che mi fa sempre un partire una sorta di scintilla, ecco”.
Senti, parliamo del tuo lungometraggio di esordio, Il mio compleanno: innanzitutto vorrei sapere come hai fatto a scovare Zackary Delmas, che è veramente un giovane incredibile. Che cosa cerchi di solito in un attore o in un’attrice quando ti trovi a dirigere un film?
Christian Filippi: “Quando l’ho trovato sono stato veramente fortunato perché quando ho fatto la call dei casting per il film sono arrivati tutti ragazzi veramente bravissimi, soprattutto un paio erano incredibili, però erano già un po’ grandi. Io avevo bisogno proprio di un diciottenne, volevo per forza un ragazzo di 18 anni. Mi ricordavo che avevo visto Zack un po’ di anni prima, lui aveva 14-15 anni, in un cortometraggio e quindi l’ho ricercato tramite il regista di quel corto. Sì è presentato al provino insieme al nonno, timidissimo, infatti mi sono detto “Dio mi sa che ho toppato stamattina”. Invece, quando abbiamo dato l’azione per fare le prove, per fare questo provino, è stato incredibile, si è trasformato. Ti dico questo aneddoto: lui ha provato la scena in cui ruba il telefonino al parco a una ragazza e noi stavamo lì, io col telefono che lo riprendevo, la casting, un altro assistente e nessuno di noi si è accorto quando gliel’ha rubato. Lui si è alzato, se n’è andato, è ritornato e ci ha ridato il telefono come se nulla fosse.
Insomma, Zack ha un talento incredibile e soprattutto, secondo me, ha una sensibilità che all’età sua è molto rara. A parte che è un ragazzo molto colto, studia tanto, si impegna in tutto quello che fa. Poi ha veramente anche un aspetto umano molto particolare e raro, a quell’età. Quando cerco un attore o un’attrice, cerco sempre di trovare un match tra quelle che sono le caratteristiche tecniche e quelle umane, ma non per forza di di background o di storia di vita, ma proprio a livello di sensibilità di attenzione che hanno verso certi temi, verso certi aspetti della vita. Zack era proprio l’unico Riccardino possibile. Io dico sempre perché in qualche modo gli ho affidato completamente anche l’identità del personaggio: quando abbiamo girato il film io avevo 32 anni e lui 18, quindi gli ho detto “Senti, coloralo tu questo personaggio, arricchiscilo con la tua personalità”. Sono stato molto contento del lavoro che ha fatto e spero che continui a fare sempre questo mestiere perché è il suo sogno, è quello che vuole fare e, soprattutto, ha grande talento per farlo”.
Nel tuo film come tema centrale c’è quello del rapporto tra madre e figlio, tra questa madre alienata allontanata dal figlio e questo figlio che vive in casa famiglia e decide di passare il suo compleanno con la madre. Sono curiosa di sapere se c’è qualcosa di autobiografico, questo oppure se è una situazione in cui ti sei imbattuto, perché ho letto in un’intervista precedente che tu hai fatto anche un casting all’interno di una casa famiglia e magari hai incontrato qualche situazione simile.
Christian Filippi: “L’idea di questo film in generale nasce dopo aver fatto da assistente in un film nel 2015 per il quale mi mandavano a fare street casting nelle case famiglia e negli IPM (Istituti Penali per i Minorenni, ndr). Sono rimasto in contatto con alcune associazioni e quindi il fine settimana andavo lì, vedevo un film con i ragazzi, chiacchieravamo con gli educatori e quindi ho trovato tantissime storie. Mi hanno raccontato tantissime storie come quella del film: questa necessità di cercare la propria famiglia d’origine al di fuori della struttura e quindi sicuramente la storia è nata grazie a loro, grazie ai racconti degli educatori e dei ragazzi.
Io comunque sono cresciuto in una famiglia un po’ allargata, fino ai 14 anni sono stato con una persona in casa che soffriva dello stesso disturbo, più o meno, della madre di Riccardino. Però ci sono arrivato un po’ per caso: non era la mia motivazione iniziale. Ci sono arrivato un po’ per caso, scrivendo il film e lavorando alla Biennale College sul film. Ci sono arrivato molto in maniera inconscia a quello, non era nei miei presupposti di partenza. Però poi, riguardando il film, mi sono conto che è un po’ la somma di tutta la mia vita dagli zero ai 30 anni: in qualche modo c’è una parte autobiografica, sicuramente, ma una parte forte anche di esperienze che ho vissuto facendo questa attività. Quindi è stato un po’ un match di queste due cose”.
Tu poi ti sei laureato con lode alla RUFA, un’università prestigiosa, e hai comunque una formazione molto solida alle spalle dal punto di vista accademico: sei andato all’Istituto Rossellini e hai anche studiato alla Sapienza. Quanto conta oggi per un regista, per una persona che lavora nel cinema, la formazione?
Christian Filippi: “Sicuramente a me la scuola che ha dato di più in assoluto, lo dirò sempre, è l’Istituto Rossellini, perché mi ha dato la possibilità di capire che c’era una strada per fare quello che mi piace e farlo diventare un mestiere. In quella scuola sono arrivato a 15 anni e sono uscito a 20 anni, e mi ha dato proprio un’idea, una rotta da seguire. Poi mi sono perfezionato prima alla RUFA, poi ho fatto Editoria alla Sapienza, però la formazione accademica serve più che altro per quando uno si presenta ai produttori, si presenta ai distributori, fa le interviste. È più una cosa di facciata per darsi quelle armi da riutilizzare quando poi si lavora.
Però poi effettivamente il mestiere, almeno del regista in questo caso, si impara tanto facendo, secondo me, l’assistente, imparando a capire cosa vuoi fare e cosa noi non vuoi fare dei registi che assisti, perché è molto importante anche saper scegliere un proprio metodo o una propria impronta da dare al lavoro. E poi è un lavoro che ha una componente umana, una sensibilità che è imprescindibile. Quindi la formazione accademica serve ma va delimitata per alcuni aspetti. Poi, è chiaro, bisogna conoscere la tecnica, conoscere gli aspetti più pratici del mestiere però poi la componente umana le scuole non te la danno mai, è difficile. A meno che non incontri un insegnante che magari può ispirarti, però non è così fondamentale”.
Questa “importanza di facciata” l’ha avuta anche per te, quando ti sei presentato? Hai detto “Io sono laureato alla Rufa, ho fatto questa tesi, ho fatto questo” e ti hanno guardato con più riguardi rispetto, magari, ad un analogo regista che si presentava senza avere pezzi di carta?
Christian Filippi: “Ma guarda, quando mi conoscono pensano che non ho manco la terza media (ride, ndr). Perché non mi copro mai, cerco sempre di essere molto diretto, molto me stesso quando faccio le cose. Allora, non è un fatto di titoli di studio, è la formazione magari, anche a livello di storia, di storia del cinema, di linguaggio che uno ha, che comunque è sicuramente ti danno un’impronta diversa. È quello, più che i titoli: è proprio un background culturale a 360 gradi. Ho studiato belle arti, poi editoria, quindi mi ha dato una formazione abbastanza completa sotto il punto di vista almeno umanistico.
Quello ti dà sicuramente di più che titoli di studio in sé, ché poi non è che nessuno ti legge il curriculum quando fai il regista, però è proprio come come ci si presenta, anche magari le citazioni che puoi cogliere che ti fanno. È qualcosa che ti aiuta, proprio un dialogo, ed è fondamentale quello.
Io se non avessi studiato storia del cinema, ma non aver mai fatto ‘sto mestiere, non avrei mai fatto Il mio compleanno, così non avrei mai consigliato, chessò, Il mattatore di Risi o Accattone di Pasolini a Zack da vedere per costruirsi il personaggio. Quindi ci sono tante cose che tornano poi nella pratica, però ecco… No, essere presi sul serio non lo so come funziona. Poi effettivamente ancora non mi sento troppo preso sul serio, per fortuna da una parte, da quello che è l’universo del cinema”.
Tra le altre cose hai detto che hai lavorato come assistente alla regia e ha anche come assistente casting. Volevo chiederti come assistente alla regia, visto che hai lavorato con alcuni autori tra cui Garrone, quali sono state le esperienze per te più formative. Poi ti chiedo di farmi qualche esempio di autore da cui hai imparato che cosa fare e anche che cosa non fare.
Christian Filippi: “Con Garrone ho lavorato qualche mese, andando a fare i casting in giro per l’Italia per un suo film. In particolare cercavamo bambini e bambine – era Pinocchio, ndr – ed è stata la prima la prima ondata di casting, che abbiamo fatto nel 2016.
Poi, in realtà, il regista da cui ho imparato in assoluto di più è sicuramente Claudio Giovannesi, soprattutto per il modo di fare ricerca e di come approcciarsi quando si fa un film. Ecco, lui ha un metodo al quale io mi sono ispirato soprattutto nei primi periodi. È un regista cui devo tantissimo, che ringrazio ogni volta. Però ho imparato anche, per esempio, a non fare alcune cose, non da lui ma da altri registi.
Ad esempio, nonostante il mio film sia un film con un approccio molto realista, anche per le tematiche di cui parla, per l’esperienza da cui nasce, io però poi cerco sempre anche un’astrazione nei racconti. Mi piace fare questi film in prima persona e quindi cerco sempre di entrare nella testa, che è qualcosa che si distacca da un cinema realista, che poi in Italia facciamo molto bene e abbiamo sempre fatto. Cerco sempre un po’ di staccarmi anche da questo filone, e quella è un’altra cosa che ho imparato assistendo alcuni registi, conoscendoli. Cercare un mio punto di vista, il mio linguaggio, in maniera presuntuosa”.
Prima citavi Il mattatore di Dino Risi… Quali sono gli autori che ti hanno influenzato di più come regista e come uomo di cinema?
Christian Filippi: “Allora diciamo che per me Ken Loach è il regista che, in assoluto, assieme ai fratelli Dardenne, mi hanno più formato: per la ricerca delle storie, per come trattare alcuni argomenti. Se penso a Rosetta, è uno dei film che mi ha influenzato di più in assoluto dei fratelli Dardenne. Sicuramente questi due, poi ci sono alcuni registi più contemporanei come Andrea Arnold, che mi piace tantissimo e di cui Fish Tank è una grande ispirazione per Il mio compleanno.
Poi, nella storia del cinema, per me Roberto Rossellini e Risi sono altri registi che mi hanno fortemente influenzato. Io fatto storia del cinema al liceo, poi l’ho rifatta all’università due volte: in qualche modo questi film li ho rivisti mille volte e soprattutto sento, come giovane regista italiano, anche un po’ una responsabilità di affidarsi e rinnovare quel tipo di cinema leggendo la contemporaneità di adesso. Quindi, raccontare il presente partendo anche da una ricerca che facevano nel passato, rinnovandola sulle storie di oggi, è qualcosa che mi affascina e che provo a fare”.
La tua tesi di laurea alla Rufa riguardava il rapporto fra arte e periferie: secondo te come l’arte può raccontare la periferia? Fammi il nome di un autore che per te riesce a farlo bene.
Christian Filippi: “Sai, quello degli stereotipi è qualcosa insomma che che purtroppo nasce anche da esigenze di mercato. L’arte a 360 gradi, non solo il cinema, quando entra a contatto con luoghi un po’ dimenticati dalle istituzioni, c’è sempre il rischio che ne crei sia un racconto un po’ travisato, della criminalità e del disagio, sia una fascinazione per alcuni luoghi. Che poi porta in quei luoghi, per chi ci vive, anche difficoltà: da una parte, se ti dice bene, c’è un pericolo di gentrificazione che porta le persone residenti ad andare via perché è insostenibile la vita, se ti dice male porta ad un aumento di criminalità. C’è sempre un rischio.
Ho fatto quella tesi semplicemente perché sono nato e cresciuto in una “periferia”, il Quadraro, e ci sono alcuni autori, non solo di cinema, che mi hanno ispirato che ho portato nella tesi. Come Ascanio Celestini, che per me è un po’ come una bussola quando faccio le cose. Adesso per esempio ho letto il suo ultimo romanzo, Poveri cristi, che parla del mercato dove vado a fare la spesa il sabato mattina. Lui la racconta, quella vita, perché la conosce, la vive quotidianamente.
Io ho cercato di raccontarla perché la mia tesi aveva un sottotitolo che è Partire da quello che si vede tutti i giorni. Io mi sono voluto investire della responsabilità di raccontare quello che conosco meglio, quello che vedo tutti i giorni: quindi, dal primo corto, via Palmiro Togliatti, al vicino di casa. Poi quando ho vissuto il periodo della chiusura di alcuni centri d’accoglienza, ho partecipato ad alcune manifestazioni, le case famiglia perché erano luoghi che conoscevo, che abitavo.
Quindi, più che periferia, è qualcosa che che si conosce. Io diffido sempre un po’ delle persone che poi magari hanno anche uno sguardo più originale su alcuni luoghi, magari perché non li vivono, però a me piace raccontare le cose che ho vicino”.
Quindi quale sarà la prossima esperienza, la prossima realtà che racconterai che vedi tutti i giorni sotto i tuoi occhi?
Christian Filippi: “In realtà la stavo proprio cercando, perché questo è stato un anno particolarmente intenso, seguendo la promozione del film, eccetera. Fino a fine giugno siamo ancora in sala quindi non sto praticamente quasi quasi mai a Roma, non sto quasi mai a casa, e quindi facciamo anche fatica a innamorarci di qualcosa, perché è proprio una scintilla che nasce quando quando trovi l’idea è quella, lo senti e vai.
Adesso stiamo cercando di ragionare, riaprendo il cassetto con vecchie cose che avevamo scritto, però ancora non è scoccata quella scintilla (…) Il modo migliore di scrivere i film, come diceva Zavattini, è prendere l’autobus. Uscire, cercare storie. È quello che per il momento, pure per mancanza di tempo, faccio fatica a fare, però spero che nei prossimi mesi nasca nasca qualcosa di nuovo”.
Che consigli daresti a un regista al suo esordio per riuscire proprio a percorrere le tue orme, quindi diventare regista e non perdere la speranza?
Christian Filippi: “(Ride, ndr) La verità è che poi uno alla fine, anche se si impegna tantissimo, ce la mette tutta, è bravo, ha talento, comunque… Ecco, io ancora non so, adesso ho fatto un film però non so se lo farò per tutta la vita questo mestiere, o se questo, come si dice, è sia il primo che l’ultimo (film).
Il fatto è che serve tanta fortuna ad incontrare le persone giuste che credono in te, e pure quello a volte non basta, perché magari pure quelle persone non hanno accesso alla possibilità di farlo. Questo è un momento difficilissimo per esordire: il Ministero della Cultura non supporta assolutamente le piccole produzioni e i giovani che provano a fare questo mestiere. Anche all’interno dell’industria, non c’è un sostegno adeguato sia da parte delle produzioni che delle distribuzioni, o dai giornalisti. È un sistema.
La verità è che ci serve un supporto che ora non c’è. Io mi auguro che cambi qualcosa, e che soprattutto ci sia un ricambio, non solo generazionale ma ideologico. Bisogna cambiare direzione, dare possibilità a chi ha le storie di raccontarle. Invece si supportano, purtroppo, storie di cui non ce ne frega niente con tanti soldi. Chi vuole fare questo mestiere, se lo vuole fare davvero, troverà comunque sicuramente il modo per farlo, ne sono sicuro”.
Ultima domanda: tu saresti disposto a espatriare per poter continuare a fare cinema?
Christian Filippi: “No, anche per il discorso che abbiamo fatto prima. Io non riesco a raccontare cose che non conosco bene, che non mi sono vissuto addosso per un po’ di tempo. Ricominciare da zero, in un Paese che non conosco… Poi io non parlo nessuna lingua a parte il romano, quindi faccio proprio difficoltà anche solo a pensarmi al di fuori non solo di Roma, ma anche del mio quartiere di Roma. Questo forse è anche il motivo per cui potrei non fare più altro dopo Il mio compleanno (ride, ndr), non lo so, però io sono così, quindi non credo che andrò mai via”.
Ringraziamo Christian Filippi per la cortesia e per il tempo che ci ha dedicato.
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