Per la rubrica settimanale Il cinema di Ingmar Bergman, oggi parliamo di Musica nel buio (1948), opera che contiene già i primi frutti della poetica bergmaniana.
Con Musica nel buio Bergman ci presenta il pianista Bengt Vyldeke, artista reso cieco da un incidente e precipitato in una spirale di isolamento e disperazione. Qui il regista mette in scena la fragilità dell’essere umano di fronte ad una condizione che lo priva della fiducia nel futuro.
In questa pellicola, la cecità diventa la metafora di un buio interiore: Bengt fatica sia ad orientarsi nel mondo che a riconoscersi come individuo degno di amore. Il suo rapporto con Ingrid, la ragazza che lo assiste, è allora più di una vicenda sentimentale: è il tentativo di sottrarsi al vuoto e alla solitudine. L’amore qui diventa la salvezza che impedisce al protagonista di soccombere.
Qui, Bergman, lavora sul contrasto tra le diverse generazioni: il tutore che impedisce il matrimonio diventa autorità ostile, incapace di comprendere i bisogni dei giovani. Il tema del conflitto ritornerà costantemente nell’opera di Bergman, sopratutto quello tra padre e figlio. Ricordiamo che il regista è figlio di un pastore protestante e che il rapporto con suo padre condizionerà tutte le sue opere.
Dal punto di vista stilistico, si nota un’attenzione quasi maniacale al volto umano, che diventerà col passare del tempo la cifra stilistica distintiva di Bergman. La regia è sobria, quasi didascalica, ma già capace di costruire momenti di forte tensione psicologica.
Musica nel buio non fu accolto con grande clamore. Rappresentò tuttavia un passo importante per Bergman, poiché fu il film che permise alla Svensk Filmindustri di continuare ad investire sul regista svedese.
Oggi possiamo vedere questo film e percepirlo come un’opera di passaggio, dove il regista inizia ad interrogarsi sulle domande che lo accompagneranno per tutta la sua carriera: come si convive con la sofferenza? Quanto è importante l’amore nella vita degli esseri umani per non cadere nella disperazione?
Musica nel buio non offe risposte definitive (come del resto tutti i film di Bergman) ma ci apre una strada: quella di un cinema che non rassicura, non consola ma scava nelle ferite dell’animo umano e ci obbliga a guardare (e guardarci) con lucidità.
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