Skip to content Skip to footer
Philadelphia

Philadelphia, la recensione su Almanacco Cinema

Poco più di trent’anni fa Jonathan Demme accendeva un faro sul tema dell’AIDS, e non solo. Ecco la nostra recensione di Philadelphia.

Sulle note di Street of Philadelphia di Bruce Springsteen e su scene di normalità metropolitana inizia il racconto della storia di Andy Beckett. Philadelphia ottenne un buon successo di pubblico, e in linea di massima anche la critica lo apprezzò.

Nonostante, infatti, in alcuni aspetti il film risulti un po’ ruffiano rispetto a un certo tipo di pubblico, ha comunque il merito di aver aperto gli occhi a molti su una malattia che negli anni ’90 era circondata da pregiudizi e false credenze.

Se il cinema sia in grado o meno di apportare effettivi cambiamenti al mondo è un tema complesso e combattuto. Quello che è certo, però, è che la rappresentazione può essere cruciale per arricchire lo sguardo degli spettatori. Un film può indurre riflessioni. Può aiutare a rendere più complessa e quindi più reale l’opinione che abbiamo sulle cose del mondo. E questo probabilmente Philadelphia, soprattutto quando uscì nel 1993, un po’ riuscì a farlo.

Philadelphia, la trama

Andrew Beckett (Tom Hanks) è un giovane e brillante avvocato che lavora in un prestigioso studio legale. Apprezzato e benvoluto dai colleghi e amato dalla sua famiglia, convive con il suo compagno Miguel (Antonio Banderas).

Grazie ai suoi ultimi successi, lo studio legale decide di dargli fiducia affidandogli una causa importante. Durante l’incontro con i capi, però, uno di loro nota una piccola ferita sulla fronte di Andy. Il giovane avvocato, infatti, è in cura per l’AIDS.

Qualche tempo dopo Andy viene licenziato “per giusta causa” colpevole di aver perso un documento importante e di aver quasi fallito il processo. Competente e metodico Andy sa che quel documento è stato nascosto da qualcuno. Convinto di essere stato sabotato a causa della sua malattia, e forse anche della sua omosessualità, si rivolge a un collega incontrato settimane prima.

Joe Miller (Denzel Washington) è un avvocato che si occupa di questioni piuttosto semplici, soprattutto cause di risarcimento danni. Andy arriva da lui dopo essere stato rifiutato da nove avvocati. Nessuno, consapevole della sua malattia, è disposto ad aiutarlo a citare in giudizio i suoi ex capi.

Neanche Joe. L’uomo, sposato e da poco divenuto padre, è lo specchio della società che vive. Omofobo, gonfio di pregiudizi, e riluttante a qualsiasi contatto fisico con Andy. Nonostante ciò, forse colpito dalla determinazione del giovane, finisce per accettare. Il processo, complesso e spietato, finirà per focalizzarsi non tanto sulla malattia quanto sulla discriminazione sociale e sul tema del diritto.

Quando la malattia diventa colpa

Philadelphia è considerato il primo film a trattare in modo esplicito il tema dell’AIDS e lo stigma sociale che comporta. Erano gli anni in cui c’era ancora tanta incertezza su come la malattia potesse essere trasmessa. L’ignoranza genera panico e quasi sempre in questi casi è facile e consolatorio trovare un nemico da escludere.

L’AIDS nel film diventa, infatti, anche il pretesto per raccontare quali fossero le reali considerazioni dell’America rispetto alla comunità LGBTIQ+. La malattia fornì un motivo concreto per avercela con gli omosessuali, per ghettizzarli e per emarginarli. Quando a processo si presenta una donna, licenziata per gli stessi motivi di Andy, ciò diventa palese. Avendo contratto la malattia con una trasfusione la donna viene comunque allontanata, ma non disprezzata.

È l’omosessualità la colpa di Andy, la malattia diventa soltanto la manifestazione di tale colpa. Il film, tra l’altro, cede al pericoloso stereotipo della vita dissoluta e sregolata di Andy, pur censurando praticamente qualsiasi gesto di affettività con il compagno Miguel. In questo Philadelphia si presenta come un film che, pur tentando di portare una nuova prospettiva, racconta la storia da un punto di vista che non è del tutto quello della vittima.

“Hai dei problemi con i gay Joe?”

Se volessimo considerare il protagonista di un film come quello che compie un arco di trasformazione allora dovremmo soffermarci su Joe. L’avvocato all’inizio del film manifesta, in un lungo e ahinoi onesto dialogo con la moglie, tutta la sua omofobia. Lo fa nel linguaggio e nei gesti. A un certo punto ammette ad Andy di essere cresciuto così, con convinzioni altrui che l’hanno costretto a pensare in un determinato modo.

Philadelphia

Per quanto credibile, forse, il suo arco non si risolve in modo del tutto soddisfacente. Considerando il fatto che lo spettatore, soprattutto quello degli anni ’90, è portato a identificarsi con lui il film rimane piuttosto “timido” nel trasformarlo. Si accontenta in un certo senso di una comprensione mentale della questione, senza rischiare troppo sul piano emotivo. Ciò accade in una scena in particolare, quella dell’opera lirica.

In estasi con Maria Callas

Una delle scene più belle del film e forse la più significativa per il rapporto tra Andy e Joe è la scena dell’opera. Andy è un appassionato, lo si vede quasi sempre lavorare con la musica lirica in sottofondo. È un tappeto sonoro costante al suo personaggio.

Rimasti soli dopo una festa, Andy e Joe devono lavorare alle risposte di Andy per il processo. Il giovane, però, si prende un momento per descrivere a Joe un’aria tratta da Andrea Chénier, opera di Umberto Giordano. La voce è quella di Maria Callas e il brano è La mamma morta.

Andy, a occhi chiusi, si lascia travolgere dalla musica. In un momento estatico, reso tale anche da una regia che gioca con le luci e un’inquadratura mai fissa, quasi riesce a danzare con la flebo al braccio. Si commuove, e il suo altruismo emotivo tocca per la prima volta il cuore di Joe. Gli occhi di Denzel Washington tradiscono un forte coinvolgimento. Per la prima volta forse sta guardando davvero Andy, lo sta ascoltando.

Terminata l’aria, Joe, sopraffatto e un po’ imbarazzato, va via. Uscendo, però, si ferma. Torna indietro come a rientrare ed è come se avesse l’impulso di fare qualcosa. Andy si è lasciato andare davanti a lui, lui potrebbe e forse vorrebbe fare lo stesso. Tuttavia, si trattiene, e con un sorriso sarcastico torna a casa per gettarsi tra le braccia della sua bambina e di sua moglie. Nonostante il finale, pertanto, una certa distanza emotiva permane.

Lo stile di Philadelphia

Dal punto di vista stilistico Jonathan Demme compie, come sempre, scelte originali. La macchina da presa, tutt’altro che trasparente nella sua presenza, segnala spesso il passaggio dal racconto della vicenda al racconto delle sensazioni di Andy. Durante il processo, per esempio, l’interrogatorio di Andy viene portato avanti con inquadrature fisse sul suo volto, e particolari soggettive. Sono soggettive angolate, in movimento, che rendono evidente allo spettatore il suo disagio fisico.

Altro dettaglio stilistico è l’uso dei primi piani con inquadrature quasi del tutto frontali. La conseguenza è che lo sguardo degli attori è rivolto quasi direttamente alla macchina. Questo dà la sensazione allo spettatore di essere interpellato. È interessante che Demme si serva di questo espediente durante il colloquio in cui Andy chiede a Joe di aiutarlo. La delusione degli occhi di Tom Hanks è rivolta a Joe, ma anche a noi. Demme provocatoriamente costringe lo spettatore a sentirsi parte della questione.

In conclusione

Philadelphia è un film che affronta la discriminazione in base all’orientamento sessuale da una prospettiva giuridica. Ci ricorda che la legge non può avere a che fare con la morale e con l’etica personale, che sono soggettive. Ha a che fare con il rispetto dell’essere umano nella sua essenza profonda, in quell’essenza che appartiene proprio a ognuno di noi.

Pretendere l’uguaglianza sociale in cui una società come la nostra è oggi un’utopia. Nessuno di noi sceglie dove nascere, in che contesto culturale, se nascere omosessuale o eterosessuale, ricco o povero, eppure viviamo le conseguenze di ciò che siamo. Eliminare culturalmente il razzismo, l’omofobia, il sessismo, per citarne alcuni, sembra impossibile. Ma almeno nelle aule di tribunale ciò deve essere una concreta e sentita aspirazione.

In una delle prime scene del film, mentre Andy entra in ufficio, sulle porte di un ascensore compare una scritta. È un’incisione, di quelle vandaliche, in cui c’è scritto “no justice, no peace”. Non siamo ancora entrati nella storia ma ci viene già suggerito quale sarà il focus. Andy è malato, sa che affronterà un processo doloroso in cui verrà umiliato, offeso e deriso. Ma crede nella giustizia, sa di avere ragione, e sa che potrà ritrovare la pace solo quando avrà difeso la sua dignità.

Philadelphia è un film uscito in Italia nel 1994 e probabilmente questi trent’anni si percepiscono tutti. Nel linguaggio, ma anche in un certo esasperato pudore nel dipingere una storia d’amore omosessuale. Oggi forse sarebbe girato in modo diverso. Tuttavia, il tema della discriminazione e dei diritti rimane non solo attuale, ma sembra colpito dalle ombre di un passato che ritorna. Per questo Philadelphia è un film che può ancora dirci qualcosa, e che vale la pena rivedere.

Recensione a tre stelle su Almanacco Cinema