Final Destination: Bloodlines, la recensione

L’ultimo film della saga di Final Destination si rivela sicuramente il culmine della serie, ma comunque non riesce a convincere definitivamente.

Tra quest’estate ed il periodo che ci separa dalla fine dell’anno, la stagione di film horror prossimi all’uscita sembrano essere titoli tanto promettenti quanti di grande qualità: 28 anni dopo di Danny Boyle, Bring Her Back dei fratelli Philippou, il nuovo Dracula di Luc Besson, il nuovo Frankenstein di Guillermo Del Toro. Tra i tanti titoli e ritorni di franchise, anche in questi primi mesi abbiamo avuto diversi titoli del genere.

Tra questi c’è il film uscito lo scorso 15 maggio, Final Destination: Bloodlines, diretto da Zach Lipovski ed Adam Stein. Il film rappresenta il sesto capitolo della saga, iniziata nel 2000 con Final Destination, esordio di James Wong, e proseguita fino al 2011, anno in cui è stato distribuito la quinta parte della saga. L’ennesimo capitolo in cui l’orologio del tempo ticchetta e la morte lo insegue.

Final Destination: Bloodlines

Stefani è una giovane ragazza che va al college, ed ormai da diverso tempo ha la stessa terrificante visione onirica: l’orrenda morte di centinaia di persone durante la serata d’inaugurazione di un esclusivo ed elegante palazzo alla fine degli anni ’50. La protagonista di questo incubo è una giovane donna di nome Iris, nome della nonna della ragazza.

La sua voglia di porre fine a questi sogni la spingerà a tornare a casa dalla sua famiglia, con tante domande in cerca di risposta. La famiglia della ragazza, composta dal padre, dal fratello, dagli zii ed i loro tre figli, verrà involontariamente coinvolta nella catena di orribili omicidi che si instaura da quando la ragazza torna da loro, con presagi di morte che si nasconde ovunque e le danno la caccia.

Eredità mortale

Come detto all’inizio, il film è l’ultimo – per il momento – capitolo del franchise di Final Destination, che conta attualmente sei film, di cui uno con la denominazione The Final Destination 3D – nonostante in originale sia solamente The Final Destination, ma realizzato unicamente per il 3D – segno della moda popolarissima di fine anni 2000 di alcune bruttissime pellicole horror che provavano a spigere su questa nuova tecnologia – Saw 3D e San Valentino di sangue 3D.

Un franchise, proprio come quello di Saw, che sembrava deceduto, anche per via dei suoi ultimi fallimenti commerciali e critici, ma che potrebbe essere riuscito a dare nuova linfa vitale con quest’ultimo capitolo, che ne riprende in pieno l’idea di base, proponendo nuovamente un tour-de-force sanguinoso e slapstick tra uccisioni e risate, ma introducendo un concetto di generazionalità e come la morte segua, appunto, delle precise linee di sangue.

 

I pregi

Forse al punto più alto di una saga comunque arrivata, probabilmente, al suo capolinea creativo. La pellicola prova anche a sfiorare i temi di karma e libero arbitrio, ma la sua forza non sta nelle chiacchiere. E va bene così. Nonostante il dramma della tramma sia piatto, l’eleganza estetica e la grande messa in scena – soprattutto nelle parti degli omicidi – risulta sia soddisfacente creativamente, sia divertente.

Tutta la costruzione ed il concetto premonitorio con il quale il film intinge le uccisioni è perfetto nella sua impostazione, dall’azzeccatissima colonna sonora – Ring of Fire di Johnny Cash e Bad Moon Rising dei Creedence Clearwater Revival – al modo in cui la macchina è montato e si muove. Molto ampio, e molto strano, è l’utilizzo dei dolly zoom, soprattutto nelle scene dei sogni.

I difetti

Con un tipo di film del genere, puntare ad ovvie criticità sarebbe come sparare sulla croce rossa. Ma piuttosto che parlare di violenza o di non-profondità della pellicola, il vero problema sta nella sceneggiatura, in particolare quella dei protagonisti. Il film impiega più tempo a costruire le morti rispetto a quello che dedica ai possibili archi dei suoi personaggi. Abbandonato dopo l’ottima scena iniziale, come anche il tema dell’onirico.

Il problema è che il film rimane a metà, essendo a tratti una volontaria parodia di sè stesso e del genere, a tratti, invece, prendendosi sul serio e risultando come un’accozzaglia di clichè. Insomma, in questo loro mondo di estremismo fantastico ed esagerazione, i personaggi e le loro reazioni risultano troppo poco umani, al contrario della Morte che, a quanto, ha un rispetto per i concetti di tempo e spazio, contrariamente a quello che questa saga ci trasmette.

Destinazione finale

Purtroppo, questa ha rappresentato l’ultima interpretazione dell’attore ed icona Tony Todd Candyman, Il corvo, Platoon – scomparso lo scorso 6 novembre, a causa di un tumore che da tempo ormai lo stava consumando. La pellicola è in sua memoria e rappresenta tutto il mondo del cinema nella sua toccante commemorazione.

Insomma, apparte tutto, il film è simpatico, strappa qualche risata e riesce a far inorridire facilmente, ma non riesce a definirsi bene, rimane molto confusionale, senza nemmeno spunti riflessivi o intrigati per la trama, come può magari offrire una saga quale quella di Terrifier. Il film è ancora disponibile nei cinema.

Lorenzo Maulicino

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