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Il processo ai Chicago 7

Il processo ai Chicago 7 ed il ’68

Il processo ai Chicago 7 è la dimostrazione che esiste ancora un cinema politico e che lo si può fare anche a grandi livelli e con ottimi risultati.

Il 28 agosto del 1968, a Chicago, Illnois, durante lo svolgimento dell’annuale convegno del Partito Democratico statunitense, un’immenso gruppo di attivisti presenti per protestare contro la guerra del Vietnam e la politica dell’allora pessimo Presidente Lyndon B. Johnson, arriva allo scontro con la Guardia Nazionale, provocando numerosi feriti. Sono passati esattamente 57 anni da quel giorno.

Non siamo più nel Sessantotto, non possiamo neanche tentare di immaginare che un qualcosa del genere possa lontanamente succedere ai giorni nostri ma condividiamo alcuni simili problemi. La guerra dilaga in diverse parti del mondo da moltissimo tempo, ma sembra che le persone stiano aprendo gli occhi solo ora e, a differenza di quegli attivisti, non c’è più solo il cattivo, ora esiste anche il buono e per ottenere la pace, questo non va bene.

Il processo ai Chicago 7

Da quegli scontri del 28 agosto 1968, cinque mesi più tardi, inizia un processo che durerà la bellezza di quasi tre anni e che vide sul banco degli imputati sette – e per un breve momento otto – di quegli attivisti di Chicago, portati in tribunale dal governo federale con l’accusa di aver istigato un’enorme rivolta. Queste persone vennero poi conosciute come i Chicago Seven: Abbie Hoffman, Jerry Rubin, Tom Hayden, Rennie Davis, David Dellinger, Lee Weiner, John Froines e l’ottavo Bobby Seale.

Aaron Sorkin scrisse Il processo ai Chicago 7 già nel 2006, incaricato da Steven Spielberg. Il progetto morrì finchè, nel 2018, il geniale Sorkin decise di curare lui la regia. Nel cast troviamo rispettivamente Sacha Baron Cohen, Jeremy Strong, Eddie Redmayne, Alex Sharp, John Carroll Lynch, Noah Robbins, Daniel Flaherty e Yahya Abdul-Mateen II. Per finire, Mark Rylance, Joseph Gordon-Levitt, Frank Langella e Kelvin Harrison Jr.

Una generazione di persone serie

Il processo ai Chicago 7 si apre con un breve discorso di Lyndon B. Johnson nella fase dell’escalation della guerra del Vietnam, con il numero di soldati che andrà ad aumentare enormemente. Ed il film si chiude con la fine del processo e la lettura dei 4.752 soldati uccisi dall’inizio del processo stesso. Anche se a tratti il film sembra focalizzarsi sui suoi personaggi, Sorkin ci vuole ricordare qual’è il vero tema di tutto questo, il movente reale dietro ai fatti.

Purtroppo, i film di Sorkin in cui sia scrive che dirige, hanno un problema comune: la sceneggiatura è troppo superiore a qualsiasi altra cosa. Qui, riesce a conferire automaticamente fascino disumano e carisma magnetico a qualsiasi personaggio che apra bocca, ma questo in ogni caso non li rende gradevoli o belli, solo affascinanti. Un dramma giudiziario mascherato da commedia. Un film serio travestito da commedia americana.

Il processo ai Chicago 7

La vera rivoluzione

Tutti hanno uno spazio adatto ed una voce giusta, nel contesto perfetto. Compreso lo splendido cameo della fenice Michael Keaton, che spacca a metà la pellicola e sorprende alla grande. Ci sono momenti in cui il film si scorda del suo reale obiettivo, o fa semplicemente finta di scordarsi. Perchè, alla fine, cosa conta di più: la rivoluzione o il concetto di rivoluzione?

Il film si muove per simboli, proprio come quell’intera generazione si è fatta strada lungo la loro ideologia. Allo stesso modo, si muove per polarizzazione. Troviamo la luce dei buoni – i colori sgargianti, la simpatia e la fotografia più luminosa – contro il buio dei cattivi – gli abiti scuri, le tende tirate giù e la totale mancanza di ironia – che si trasformano alla fine delle due ore e dieci di film: ogni personaggio inizia in un modo e finisce in un altro.

Il Sessantotto

I due animi più importanti e sulla cui divisione e contrasto si fonda il nocciolo del film sono l’Hoffman di Baron Cohen e l’Hayden di Redmayne. Il primo è un radicale, legato intrinsecamente al concetto di rivolta non pacifica e che fuma dalla mattina alla sera. Il secondo era un politico serio, studente da una vita ed uno dei redattori della dichiarazione di Port Huron – quella citata ne Il grande Lebowski. Il primo divenne un criminale, il secondo un parlamentare.

Eredità. Questo è il massimo punto di dialogo tra le due fazioni in protesta. L’eredità di quello che è stato e di cui ora vediamo le conseguenze. Ma Sorkin non si esprime, non emette un vero e definitivo giudizio critico. Presente i fatti ed intavola una discussione, come solo lui sa fare. Ed è talmente grande che questo dibattito dura da quasi 60 anni ed i resti di ciò che è stato, adesso sono ancora vivi.

Recensione a quattro stelle su Almanacco Cinema

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