285Views
La Trama Fenicia, ovvero come ho imparato ad amare le bombe a mano
La trama fenicia: la recensione dell’ultimo film di Wes Anderon, che riesce a creare una grande opera corale e forse il film più politico dell’anno.
Uscito nelle sale italiane lo scorso 28 maggio – due giorni prima rispetto all’uscita statunitense – La trama fenicia rappresenta il ritorno al cinema di Wes Anderson dopo due anni dall’ultimo Asteroid City e dalla serie di cortometraggi usciti direttamente su Netflix. L’ultimo film del regista sembra proseguire ed infittire la traiettoria dei suoi ultimi lavori, risultando un connubio tra l’ambizione del già citato Asteroid City e la coralità di The French Dispatch.
Anderson ripropone il suo peculiare stile – oramai marchio di fabbrica e necessità in ogni suo lavoro – caratterizzato da grande eleganza, un’estetica simmetrica e colorata ed un uso sempre fisso della macchina da presa. Stile che lo ha contraddistinto sin dal suo secondo lungometraggio – l’esilarante Rushmore – e che, in questo film, riesce anche ad infrangere, almeno momentaneamente.
La trama fenicia
Seguiamo le vicende di Zsa-Zsa Korda – il grandissimo Benicio Del Toro – un eccentrico magnate internazionale, che ha fatto una fortuna nell’industria della guerra. Propria questa sua importanza e conseguente ricchezza ne fanno un bersaglio fin troppo perfetto per i suoi rivali, tanto dal subire diversi attentati. Dopo essere scampato al sesto tentativo di omicidio ed aver avuto un contatto con l’aldilà cattolico, l’uomo capisce i limiti della sua mortalità.
Così, decide di incontrare dopo più di sei anni sua figlia Liesl – Mia Threapleton – una suora novizia, con la quale non solo cercherà di costruire un rapporto, ma metterà anche in moto un piano, denominato appunto la trama fenicia: per evitare la bancarotta e finanziare la sua idea più ambiziosa, sarà costretto a schivare i suoi assassini ed il governo, mentre dovrà convincere burocraticamente e non i suoi investitori.
Bombe a mano
La trama fenicia è l’ennesimo lavoro di un maestro assoluto, a cui piace collaborare con i suoi amici – Alexandre Desplat alle musiche, Barney Pilling al montaggio – ed il quale incarna perfettamente il senso del fare qualcosa del quale lui stesso è fan, in primis. E si vede. Anderson non perde smalto e, in superficie, sembra riproporre qualcosa che ha già avuto successo, ma non è così.
Ci sono i vari volti noti del regista – Del Toro e le brevi apparizioni di Willem Dafoe, Bill Murray, Scarlett Johansson e Benedict Cumberbatch – insieme ai nuovi meticci – gli assurdi Tom Hanks e Bryan Cranston nella scena più divertente. Lo vediamo alle prese per la prima volta con Michael Cera, l’attore più andersoniano che esista, con un personaggio incredibile, interpretato altrettanto incredibilmente. E speriamo in una collaborazione con Jodie Foster.

Viaggio biblico nella burocrazia
Come accennato già in precedenza, Anderson non ripete mai un film. Qui, riesce a prendere il suo solito e fine umorismo nero ed inserirlo in una storia molto complicata, che è una storia d’amore, quanto un thriller di spionaggio, quanto una favola di formazione ed un saggio su guerra e religione. E questo intricato labirinto si sposa perfettamente con l’idea di burocrazia politico-economica che vediamo nella pellicola.
Anderson e Roman Coppola scrivono personaggi che sembrano caricature, ma che non lo sono più. Sono in mezzo a noi, grotteschi, buffi ed estremamente pericolosi. Un nulla potrebbe scatenarli, e mentre noi ci domandiamo quando succederà, loro si muovono, serpeggiando come vili predatori nell’ombra, odiandosi pubblicamente e fregandoci alle spalle. L’esplosione è sospesa tra una mano ed una sicura tirata via. E la mano che la tiene, è inaffidabile, doppiogiochista, manipolatrice. È divertente ed è preoccupante. Sembra di stare nella sala della guerra de Il dottor Stranamore.
Bene e male
Il particolare – e sbagliato – montaggio del film, collega egregiamente questa metafora sul potere con un percorso religioso, in sequenze a metà tra un film di Luis Buñuel e qualcosa di vicino a Scala al paradiso di Powell e Pressburger. Non serve scoprire il proprio rapporto con Dio, quanto scoprire il proprio rapporto con sè stessi: tutto quello che pensiamo di sapere, è solo una proiezione di quello pensiamo. E non si può spiegare. E forse, neanche capirlo.
Anderson, quindi, non si interroga sull’esistenza di Dio, ma sulla convenzione nel crederci o no, in tutti i personaggi. Si spostano tra i vibranti colori delle loro splendide abitazioni, sentendosi al sicuro e protetti, ma non perchè loro sono i buoni. Nessun personaggio si redime completamente, nè può essere descritto come buono, e loro lo sanno. Non lo accettano, ma non possono cambiarlo. Solo per un’istante, un briciolio di umanità, prima della tempesta.
