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Sirens, la grammatica del potere al femminile
Sirens: su Netflix un intricato labirinto di potere, apparenze e inganni. Al centro della scena una magnetica Julianne Moore, affiancata da un cast stellare.
Dietro le facciate impeccabili dell’élite si nasconde un mondo dove il controllo si esercita con grazia e crudeltà in egual misura. Sirens, la nuova serie disponibile su Netflix, ci porta all’interno di un universo in cui il potere non ha bisogno di gridare: sussurra, seduce e consuma.
In un’isola esclusiva dove tutto è regolato con precisione maniacale, dai profumi ai sorrisi, la manipolazione non è un’eccezione ma la regola fondamentale delle relazioni. In questo elegante microcosmo, Sirens decostruisce le dinamiche del privilegio e ci mostra come il vero dominio possa essere silenzioso.
Sirens: la manipolazione come linguaggio del privilegio
Nessuno è davvero al sicuro dalla manipolazione. Nessuno, a nessun livello della scala sociale. È questa la premessa disturbante, eppure profondamente vera, su cui si fonda Sirens, la nuova serie Netflix ideata da Molly Smith Metzler, già creatrice della toccante Maid. Ma se Maid ci portava nel cuore pulsante della marginalità economica, della precarietà femminile, dei meccanismi oppressivi della povertà, Sirens cambia totalmente registro e ambientazione. Qui ci si muove tra marmi lucidi, terrazze con vista e rituali estetici millimetrici. Metzler mette da parte le stanze umide e i centri d’accoglienza per raccontare un’altra trappola, molto più elegante, molto più insidiosa: quella del potere e della sua messinscena quotidiana.
Basata su una pièce teatrale, la serie si dispiega come un thriller psicologico patinato, con un cast di altissimo profilo, Julianne Moore, Kevin Bacon, Meghann Fahy e Milly Alcock, che dà corpo e voce a personaggi complessi, stratificati, spesso contraddittori. L’ambientazione è un’isola esclusiva dove, durante il weekend del Labor Day, tre donne si ritrovano a fare i conti con le loro scelte, i loro legami e soprattutto con il potere che le attraversa, quello che subiscono, quello che esercitano, quello a cui aspirano.
Un’Olimpo inquietante fatto di controllo
A dominare questa scena dorata è Michaela Kell, per gli amici (e soprattutto per i dipendenti) Kiki, interpretata da una Julianne Moore magnetica e perturbante. Michaela è la quintessenza del potere morbido: sorrisi misurati, carisma suadente, un’estetica da guru olistica e una missione filantropica che cela un bisogno di controllo assoluto. Nulla sfugge al suo sguardo, nemmeno gli scambi più intimi delle persone che lavorano per lei. La sua villa è disseminata di telecamere e tutti i collaboratori hanno firmato accordi di riservatezza che vietano perfino di parlare di lei tra loro. Michaela non urla, non comanda con la forza, ma con la seduzione. Il suo potere è tanto più pericoloso quanto più appare benigno.

Simone, interpretata con grazia da Milly Alcock, è la sua assistente personale, confidente, addetta al guardaroba, alla lavanderia, all’estetica quotidiana e perfino alla vita erotica. Una factotum perfetta, il cui lavoro va ben oltre la professionalità: ciò che la lega a Michaela è una forma di devozione totalizzante, un annullamento di sé che si traveste da efficienza. È lei a decidere quali fiori decoreranno la casa, a scegliere la biancheria, ad aiutarla nei messaggi privati col marito. Ma in questa cura c’è qualcosa di più di un semplice impiego: c’è un legame che confonde gerarchia e affetto, potere e intimità, padronanza e soggezione.
Devon: l’intrusa che guarda (e svela)
L’equilibrio instabile di questa dinamica viene spezzato dall’arrivo di Devon, sorella maggiore di Simone, interpretata da Meghann Fahy. Devon è una donna provata: vive a Buffalo, si barcamena tra lavori instabili e la difficile gestione del padre malato di demenza. Quando riceve da Simone solo un cesto di frutta come segno di supporto, qualcosa dentro di lei si spezza. Decide così, d’impulso, di raggiungerla sull’isola dove lavora. Ma quello che trova non è solo una sorella cambiata: è un microcosmo alieno, opulento e inquietante, dove la bellezza è un obbligo e l’autenticità un pericolo.
Devon entra in scena come l’elemento dissonante, il punto di vista esterno che rompe l’armonia fasulla della tenuta di Michaela. Ma ben presto anche lei ne viene risucchiata: il fascino di Michaela è sottile ma implacabile, e il desiderio di salvare Simone si intreccia con quello, inconfessabile, di far parte di quel mondo. Perché Sirens non racconta solo la manipolazione come atto subito, ma anche come attrazione irresistibile. Il privilegio può essere velenoso, certo, ma anche dolce come il miele. E spesso, ciò che ci incatena non è la paura, ma il bisogno disperato di sentirsi accolti, scelti, visti.
Il femminile come arena del potere
Con Sirens, Metzler scava in profondità nei meccanismi del potere femminile, esplorando come questo si manifesti non tanto in forme esplicite o istituzionali, ma in gesti minimi, in relazioni complesse, in dinamiche affettive manipolatorie. Il potere non è più un discorso da ufficio, da sala riunioni, ma un linguaggio quotidiano, che si esprime nella cura, nella sorveglianza, nella dipendenza emotiva. È un potere che non ha bisogno di urlare perché ha già preso casa nei corpi e nei pensieri degli altri.
Sirens ci parla dunque del lato oscuro dell’empowerment, di come la libertà femminile possa trasformarsi in un’altra forma di prigionia, fatta di vincoli invisibili e rituali estetici.
