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Untamed, tra mistero e wilderness

Uscita lo scorso 17 luglio su Netflix, Untamed è una miniserie thriller ambientata nella natura selvaggia americana con un ottimo Eric Bana.

Sei episodi, un caso di omicidio nel Parco di Yosemite (in realtà ricreato nella Columbia Britannica canadese) e una coppia di investigatori tormentati. La formula sembra vincente: tensione, segreti, drammi personali e un’ambientazione affascinante. Ma la resa complessiva non è all’altezza delle premesse.

La serie è stata ideata e scritta da Mark L. Smith e sua figlia; tuttavia, nonostante il successo delle opere precedenti firmate da Smith, quali The Revenant e American Primeval, Untamed non riesce a suscitare le medesime emozioni.

Una promessa di mistero

La storia ruota attorno alla morte sospetta di una giovane donna, il cui corpo viene ritrovato da due scalatori. L’indagine viene affidata all’agente Kyle Turner (Eric Bana), ex ranger veterano e uomo profondamente segnato dalla perdita del figlio e da un divorzio doloroso. Ad affiancarlo c’è Naya Vasquez (Lily Santiago), una nuova ranger appena arrivata da Los Angeles. I due, inizialmente diffidenti l’uno verso l’altra, iniziano a scavare nella vita della vittima. Man a mano che l’investigazione avanza, emergono le ombre del passato di molti personaggi.

Quello che dovrebbe essere un’indagine coinvolgente prende presto una piega piuttosto convenzionale. I colpi di scena ci sono, ma spesso sono intuibili ben prima che vengano rivelati. La struttura narrativa si affida a cliché fin troppo noti: il protagonista tormentato dal passato, la collega idealista, il mentore ambiguo, il mistero familiare che funge da motore emotivo più che da leva narrativa. E anche quando la serie prova a introdurre sottotrame più profonde – come le dinamiche di potere all’interno del parco, o il rapporto tra istituzioni e territorio – finisce per lasciarle in sospeso, preferendo concentrarsi sul dramma personale di Turner.

Bellezza naturale ma freddezza emotiva

Visivamente, Untamed è molto curata. La natura selvaggia, filmata con grandangolo, droni e palette fredda, crea un’atmosfera cupa, quasi minacciosa. Gli ambienti naturali comunicano isolamento, tensione, e talvolta un senso di insignificanza umana. La regia gioca bene con questi elementi, ma tende a diventare ripetitiva: troppe inquadrature patinate rischiano di smorzare l’impatto emotivo.

Nonostante la bellezza visiva, si avverte una certa distanza. Lo spettatore assiste, ma raramente si sente coinvolto. Alcune scelte visive appaiono più estetiche che necessarie alla narrazione.

Attori solidi, personaggi sacrificati

Anche sul fronte della scrittura, Untamed alterna momenti riusciti ad altri decisamente più deboli. I dialoghi sono spesso rigidi, funzionali più a spiegare che a far emergere i personaggi in modo autentico. Eric Bana fa il possibile con il materiale a disposizione: riesce a rendere credibile la fragilità del suo personaggio, ma la sceneggiatura non gli dà lo spazio per una vera evoluzione. Lily Santiago, nei panni di Naya, è energica e sincera, ma rimane incastrata in un arco narrativo poco definito.

Sam Neil, che interpreta il collega ranger e amico Paul Souter, pur portando sullo schermo il carisma che ci si aspetta da lui, viene confinato in un ruolo secondario che avrebbe meritato ben altro spessore. L’elemento più interessante è Rosemarie DeWitt nei panni di Jill, l’ex moglie di Turner: il suo personaggio è scritto con maggiore ambiguità e profondità emotiva. Purtroppo, lo spazio che le viene concesso è troppo limitato perché possa lasciare un’impronta davvero significativa.

Un’ulteriore occasione mancata riguarda il personaggio del ranger nativo americano, la cui presenza avrebbe potuto arricchire la narrazione con una riflessione più autentica sulle tensioni culturali e ambientali nel parco. Invece, il suo ruolo rimane marginale e poco sviluppato, perdendo l’opportunità di aggiungere spessore e complessità al contesto.

L’intenzione degli autori sembra essere quella di unire un racconto investigativo a una riflessione sul dolore, sulla colpa, e sulla necessità di fare i conti con sé stessi. Ma questa ambizione non viene mai davvero portata a compimento. Il dolore di Turner è ripetuto, mostrato e raccontato in continuazione, ma raramente vissuto in modo significativo. I momenti emotivi, piuttosto che scavare in profondità, scivolano spesso nel melodramma o nel prevedibile. La serie si prende molto sul serio, ma manca di quel coraggio autoriale che serve per andare oltre la superficie.

In conclusione…

Untamed non è una serie da scartare del tutto. È ben girata, recitata con professionalità, e regala qualche buon momento di suspense. Ma è anche un prodotto che si ferma alla superficie. Le sue ambizioni – emotive, tematiche e narrative – non vengono mai pienamente soddisfatte.

È una serie che si guarda con interesse, ma senza partecipazione. E che, terminata l’ultima puntata, lascia più sensazione di occasione mancata che di coinvolgimento. Un bel contenitore, sì, ma con poco da custodire davvero.

Miriam Gallinelli

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