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speak no evil

Speak No Evil, recensione del film danese e del remake USA

Speak No Evil è l’horror danese dell’inquietudine autentica, che il suo remake americano non è stato in grado di restituire. 

La versione originale del film è quella danese del 2022 diretta da Christian Tafdrup, autore del film Parents (2016) e ancor prima attore. Quello di Tafdrup è un horror lento, fatto di silenzi e accenni di intenzioni. Un film che cammina in punta di piedi, come i suoi protagonisti impauriti dal rompere le convenzioni sociali. Speak No Evil non ha bisogno di sangue o urla, ma si nutre del non detto che, scavando lentamente sotto pelle, arriva sia allo spettatore che ai protagonisti come la più forte presa di coscienza che il verbo non può e non deve spiegare.

Tutta l’inquietudine che nasce dalle scelte prese nel film del 2022 si perde purtroppo nella versione americana del 2024 diretta da James Watkins, conosciuto per The Woman In Black del 2012. Tra gli attori protagonisti troviamo James McAvoy, protagonista del film Split, che riconferma anche qui le sue doti attoriali nei ruoli di personaggi disturbati. Pur mantenendo una struttura narrativa simile a quella del film di Tafdrup (finale a parte) l’essenza del film nel remake americano viene a mancare. L’implicito diventa esplicito, i gesti si trasformano in parole perdendo tutto ciò che di veramente incisivo c’era, dando vita ad un remake che spiega troppo e sente troppo poco.

LA TRAMA

Durante una vacanza all’estero due famiglie ,formate entrambe da coniugi con un figlio al seguito, si conoscono e instaurano un rapporto amichevole. Qualche tempo dopo, una delle due coppie invita l’altra a trascorrere un weekend nella tranquillità della propria casa di campagna. I protagonisti accettano, forse per educazione, forse per cortesia sociale o per staccare dalla routine. Ma una volta arrivati, il clima si fa progressivamente più ambiguo. Piccoli dettagli, battute fuori posto, silenzi spiacevoli: nulla di apertamente minaccioso, eppure tutto contribuisce a generare un disagio ed un’inquietudine crescente. In un gioco sottile tra ospitalità e sopraffazione, prende forma un’esperienza sempre più spaventosa, dove la difficoltà di dire no diventa il vero motore della tensione.

Il significato del titolo: Speak No Evil

Speak No Evil ovvero Non parlare del male, riprende il detto giapponese dei tre saggi: uno con le mani sugli occhi, l’altro sulle orecchie e l’ultimo sulla bocca (see no evil, speak no evil, hear no evil). Oltre che simbolico il titolo è parte integrante della trama; i silenzi dei personaggi sono il motore dell’inquietudine che permea tutto il film e che prende forma in una metafora concreta e brutale. In un opera in cui il silenzio parla male, poiché nasce dalla paura di rompere delle convenzioni sociali per educazione, dall’incapacità di dire no davanti al pericolo. “Perchè lo fate?” ” Perchè ce lo avete permesso”.

Il titolo assume una valenza morale: il male si manifesta quando si smette di nominarlo, quando si rinuncia a parlare e a farsi sentire. La scelta di tagliare la lingua al bambino in questo diventa non solo una violenza fisica ma la condanna al non poter comunicare, a non poter dire la verità.

Differenze tra i film: i finali

Nel film originale il finale è devastante. Come in un rito già scritto la famiglia viene condannata a morte: al padre viene tagliata la lingua, la madre uccisa e la bambina abbandonata. Il film si chiude con la scena dei coniugi, nudi sdraiati a terra tra le pietre lanciate in quella che è una lapidazione simbolica: la punizione per chi ha rinunciato alla propria voce. Parabola della sottomissione e della passività.

Nel remake americano il tono è completamente diverso. La famiglia protagonista lotta, grida e reagisce fino ad avere la meglio. C’è meno spazio per l’interpretazione, la narrazione dei fatti è centrale e se ne fa spettacolo. Viene a mancare quell’effetto disturbante del film originale ,qui, dove la violenza diventa più concreta ma meno incisiva.

Conclusioni

Speak No Evil nella sua versione danese è un horror che lascia qualcosa. Il suo intento non è solo quello di spaventare: riesce a veicolare un’inquietudine reale, del bisogno molto umano di non voler deludere. Il film racconta il male in modo sottile, nei piccoli gesti e nelle scelte lasciate fare agli altri.

Il ramake americano, invece, riporta una concezione dell’horror più prevedibile. Dove la violenza è il fine e non il mezzo, trasformandola in un’estetica che colpisce senza trasmettere. Si basa su dinamiche già viste, spiegando troppo e togliendo così potenza a quel non detto che fa funzionare bene la sua versione originale. Dove l’originale sussurra, il ramake grida. E in questo scarto si perde tutto ciò che rendeva questo film necessario.

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